perìgeion

un atto di poesia

Il nero della profezia “inglese” di Marilena Renda

di Giusi Drago

[Il testo che segue è nato da un invito di Martina Campi e Giusi Montali a collaborare a un episodio di formula_truepoetry, il loro format multimediale che vuole presentare poesia e poeti in modo innovativo, coinvolgendo diverse voci che si alternano, musica, riflessioni sapienziali, immagini. Sul web a: www.formulatruepoetry.it/]

Nel suo ultimo libro, Fuoco degli occhi Marilena Renda ci lancia un avvertimento: “sopravvalutiamo di molto il vedere”.  Vuole metterci in guardia contro l’ingannevole primato conoscitivo dato alla vista in quasi tutta la tradizione occidentale.
La cecità è un attributo di sante o profeti, ma Renda lo indossa con un understatement che definirei “inglese”: si rivolge all’oscurità e la indaga con pacatezza, a tratti con humour, senza troppe esaltazioni e dismisure. Dichiara di non aver nulla da perdere, nemmeno gli occhi (del resto il non aver occhi è retaggio di una sorta di maledizione materna) e quando, malgrado tutto, ricorda di averli, li serra “nel nero della profezia”. Una strategia per non soccombere del tutto agli inganni del vedere, veri e propri miraggi, quelle fate morgane ben nascoste nel cuore della dialettica luce-oscurità.  
L’oscurità, insomma, o meglio i problemi che l’oscurità ci pone, è al centro della riflessione poetica di Marilena Renda. Nella poesia dedicata alla morte di Raymond Roussel, il termine oscurità ricorre per ben quattro volte.  I primi versi recitano:” Il problema dell’oscurità resta aperto, della poesia / o di quello che pare a voi […]”
 Del resto, come ci ha narrato Sciascia nel suo Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, “ci sono molti punti oscuri negli ultimi giorni di vita” dello scrittore francese. La poesia si muove di continuo su un duplice registro di corrispondenze, non solo fra passato e presente, ma anche in una vertigine di autori che parlano di autori. Sciascia scrive di Roussel, Renda scrive di Roussel e di Sciascia, ci sono persino anonimi autori di fiabe che non ci raccontano come l’eroe sia salito e sceso dalla montagna.   Il centro dell’azione è Palermo, più precisamente quel sontuoso Hotel des Palmes che “è fatto per impressionare, nonostante l’oscurità degli arredi / la luce cupa delle poltrone di broccato e degli arazzi”.  L’autrice allude a una separazione fra due amanti, a un’ultima notte insieme, e questo salda l’angoscia del commiato al presunto suicidio di Roussel nel 1933.
Lo stato emotivo della donna è rivelato da un particolare: “saliva ai polsi, / il piccolo dettaglio della bocca che non può gridare”.
 Mi sono a lungo interrogata sul significato di quel “saliva”, perché in un primo momento non sapevo se fosse un verbo o un sostantivo. Poi leggendo più volte ho immaginato che, data la sua collocazione e dato che dopo polsi c’è una virgola, si trattasse di un sostantivo (la saliva ai polsi dipende dal gesto di mordersi un polso o di portare  la bocca al polso per impedirsi di gridare) e di un inciso rispetto al prosieguo dei versi. Quindi “chiedevi solo che ti guardassi partire”, che precede l’inciso, si lega a “come l’eroe delle fiabe che non sai mai / com’é salito e sceso dalla montagna”.
A questo punto c’è come una cesura nella poesia e qualcuno chiede perdono: 

Chiedo perdono per l’oscurità che ho portato al mondo –
 immagino dicano i poeti al fuoco che viene –
 la sera che morì Raymond Russell tutti fecero finta
di non sentire il ticchettio della sua piccola oscurità
in mezzo al chiasso della festa della santa.

Siamo alla terza e alla quarta menzione del termine oscurità. La poesia ha posto in apertura  “il problema dell’oscurità”, ma in modo così astratto che non viene precisato a quale ambito essa estenda il suo buio (“o di quello che pare a voi”). In seconda istanza Renda ci parla di un’oscurità più circoscritta, quella degli arredi dell’Hotel des Palmes. Nella terza e quarta ricorrenza l’oscurità si fa grandiosa, tragica, è in relazione con una non ben precisata colpa cosmica, come nei presocratici (non a caso si parla di fuoco). La colpa giganteggia, ma riesce comunque a insinuarsi a mo’ di aculeo nella vita di un singolo, intossicandolo. I poeti portano al mondo un’oscurità di cui dovrebbero chiedere perdono, ma l’espiazione di questa colpa Roussell la paga morendo. La sua piccola oscurità ticchetta non udita in mezzo al chiasso della festa di santa Rosolia, festa insieme religiosa e patriottica (in quel giorno del 1933 l’Italia fascista celebra un successo della squadra aerea di Balbo) con annesso spettacolo pirotecnico che Sciascia definisce “infernale”: “Trema la terra, i vetri vanno in briciole; e quanto più è vasto il raggio d’azione, tanto più grande è il divertimento della gente e la gloria a cui il santo o la santa patrona ascende”. Nessuno sa se Roussel quella notte si suicidò, o se ingerì una dose troppo grande di barbiturici e sedativi, da cui era dipendente.  Sia Sciascia che Marilena Renda affermano che Roussell “voleva solo dormire, non morire, non essere, mai più, / separato dal sonno, come se il sonno fosse gloria eterna”.
Sulla parentela tra dormire e morire si potrebbero fare moltissimi riferimenti. Nell’ultima parte dell’Apologia, quando Socrate ha ricevuto la condanna dei giudici ateniesi, dice loro con grande calma:  me ne vado via tranquillo, più tranquillo di voi che mi avete condannato,  perché nessuno sa se la morte è un male. Se la morte fosse dormire un lungo sonno senza sogni, sarebbe in realtà forse un guadagno.
Mi vengono poi in mente i bellissimi versi di Catullo: nox est perpetua una dormienda, cioè l’idea che la morte sia una notte perpetua in cui dobbiamo solo dormire. Dormire un’unica notte eterna è il nostro destino, ma proprio questo – che a quanto sembra ha attratto Raymond Roussel nel suo cupio dissolvi – terrorizza invece la donna che sta per essere abbandonata o sta per separarsi dall’amato.  Quella donna che si impediva di gridare mettendosi il braccio davanti alla bocca e che dice:

 Per questo, per paura di cadere nella morte, di perdere
anche un bacio, ho aspettato il mattino a occhi aperti.

Catullo, e il suo Vivamus  mea Lesbia, atque amemus, probabilmente non era un riferimento di Renda, ma l’inconscio è potente. Per paura di cadere nella morte, di perdere anche un bacio di quei mille e poi cento e poi ancora mille che Catullo invocava per allontanare gli invidiosi e la morte, Marilena Renda  aspetta il mattino a occhi aperti.  La chiusa, riuscitissima, disegna un movimento ambiguamente circolare, perché la poesia incomincia con “il problema dell’oscurità resta aperto” e si chiude con “ho aspettato il mattino a occhi aperti”. In queste due aperture, una che resta buia l’altra che attende la luce, si gioca lo spazio della scrittura e dell’interpretazione, ciascuna  consegnata al proprio specifico cono d’ombra. Del resto Sciascia stesso, nel riportare una frase di Vincenzo Consolo (“Sciascia al buio cerca di fare luce, io al buio mi dispero”), diede ragione all’amico scrittore: “Ricordo quel mio libretto sulla morte di Raymond Roussel: ho cercato di far luce e ho aggiunto alle cose più oscurità. Lo considero una specie di apologo…”.


(da Fuoco degli occhi, Nino Aragno Editore, 2022)

Il problema dell’oscurità resta aperto, della poesia
o di quello che pare a voi. A Palermo, l’Hotel des Palmes

è fatto per impressionare, nonostante l’oscurità degli arredi,
la luce cupa delle poltrone di broccato e degli arazzi

che deve tanto confortare gli stranieri.
Non mi volevi colpire, portandomi lì l’ultima notte insieme,

chiedevi solo che ti guardassi partire, saliva ai polsi,
il piccolo dettaglio della bocca che non può gridare,

come l’eroe delle fiabe, che non sai mai
com’è salito e sceso dalla montagna.

Chiedo perdono per l’oscurità che ho portato al mondo –
immagino dicano i poeti al fuoco che viene –

la sera che mori Raymond Roussel tutti fecero finta
di non sentire il ticchettio della sua piccola oscurità

in mezzo al chiasso della festa della santa.
Sciascia, che non si espone volentieri, dice che Roussel

voleva solo dormire, non morire, non essere, mai più,
separato dal sonno, come se il sonno fosse gloria eterna.

Per questo, per paura di cadere nella morte, di perdere
anche un bacio, ho aspettato il mattino a occhi aperti

***

Le sante in genere non rifiutavano la visione –
la stessa Lucia preferì sacrificare l’organo,
ma non intendeva, credo, rinunciare alla funzione.
Nel mio caso, poi, è tutto diverso,
perché non ho santità, niente da difendere,
nemmeno occhi, mia madre
non rinuncia a ricordarmelo. 
Come vedono bene gli altri, dice,
e mi dico io stessa, mentre in spiaggia,
in barca, al ristorante o a letto
è tutto uno schivare i colpi della fortuna.
Gli altri sì, sanno da dove vengono,
loro degli occhi si possono fidare,
io invece vedo solo una volta ogni pochi anni,
e ogni volta credo 
che potrei diventare una vedente vera,
una che evita le macchine per strada,
invece ho iniziato a temere il sole più del buio,
quindi non ti chiedo chi sei,
dimentico, fingo di dimenticare la visione,
mi ricordo che non ho occhi,
e li chiudo in fretta, nel nero della profezia.

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Questa voce è stata pubblicata il 15/12/2022 da in poesia, poesia italiana con tag , , , , .
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