di Nino Iacovella
La dolce vita agra
Capitano, ma per fortuna capitano, occasioni come queste: di soffermarsi sulla poesia contemporanea attraverso un’opera “necessaria”. Opera necessaria? Cosa vuole dire? Opera necessaria si può spiegare con i versi di un mio amico poeta greco, Spyros Aravanis: “Ho scritto poesie aggrappato sulle rocce / con una mano tenevo i rami / con l’altra la penna. // Mi hanno accusato di non essermi dato del tutto. // Non hanno visto, pare, / che quando il corpo era sospeso nel vuoto / nella mano reggevo il ramo spezzato. // La penna, conficcata nella roccia. Ecco, l’opera necessaria è come se l’autore scrivesse aggrappato al cornicione della propria vita: mostrandosi completamente nudi di fronte al lettore, senza alcun riparo: dici quello che senti profondamente di voler dire (la necessarietà è qui), e quel voler dire sui tu, nudo e crudo, appunto.
Questo è il caso di Fabrizio Miliucci con il suo Saggio sulla paura, Pietre Vive Editore del 2022. Libro solido e disperato, di sostanza e di forma coerenti con l’attualità di certe scritture odierne con prose e poesie che si alternano in armonia. Peraltro la sobrietà dell’autore (pensate a un’autobiografia minimalista di due righe in croce) ci mette in immediata empatia con il poeta. Sostanzialmente Fabrizio Miliucci ci dice che ha esordito in poesia dieci anni prima, è nato a Latina e vive a Roma, nel frattempo ha lavorato nel campo letterario. E di questa linea del tempo su sfondo disadorno di cadute narcisistiche scrive quello che è un resoconto, parafrasando una delle opere tematicamente antesignane Resoconto su reddito e salute di Igor De Marchi, sulla sua appartenenza alla working class, in questo caso working class culturale, derivazione diretta di quel macrocosmo di precarietà generata dalle famiglie della vecchia working class operaia italiana. Significativa e pungente è La dolce vita agra, “felice infelicità” del titolo di una sezione dedicata a Luciano Bianciardi, intellettuale precario ante litteram in un mondo, quello di allora, dove la società, l’economia e la politica almeno erano ancora armonizzate al raggiungimento della piena occupazione e della tutela del lavoro, e non come oggi con la ricerca brutale del profitto a breve termine che non guarda in faccia a nessuno, soprattutto ai lavoratori, e nello specifico ai più giovani dei lavoratori. Ed è di questo che parla il poeta in questo libro, in sostanza un memoir in versi che investe la propria storia ma deflagra poi nel destino di una intera generazione.
Saggio sulla paura ha come incipit un testo epistolare confidenziale rivolto al caro Carlo Bordini:
Caro Carlo,
io mi volevo ammazzare. Sono giorni che vado a vuoto come un fesso
e ho il terrore che questa infelicità sia diventata il mio unico spasso. Ho io
il tuo accendino, quello marrone. Non mi faccio, non faccio praticamente
più niente
non sono praticamente nessuno. Hai ragione, la poesia è un encefalogramma.
Sto scrivendo questa poesia alla stazione, mentre cammino, a testa bassa.
Ho deciso di scrivere un saggio sulla paura – lei non mi dice più niente.
Questa è la confessione di un raggiunto stato di morte interna (la depressione), dove la fine del sentimento di paura è dovuta all’assuefazione alla stessa. Si testimonia di essere entrati in quella categoria di automi next generation creati dal cinismo del capitalismo neoliberale. Per questo, Saggio sulla paura, questa opera poetica, per tensione e coerenza potrebbe essere usata come compendio esperienziale al saggio Realismo capitalista di Mark Fisher. Ma dall’annichilimento neoliberale fisheriano nei confronti delle masse, qui si testimonia anche di una epifania imprevista: la paura si trasforma, ed ecco che appaiono i primi segni della rabbia, una rabbia individuale incontrollabile e sabotatrice della pax sociale basata sull’inerzia consumistica, sul metadone narcisistico dei social e sulla rassegnazione.
Ve ne siete andati tutti, ho perso un’infinità di appuntamenti adesso.
Penso che non pensarci è stato come non pensare a me
che mi penso in continuazione, come una specie di parente lontano.
Su queste cose lasciate a metà aleggia una smania
che non è desiderio e nemmeno indifferenza.
E poi tornarsene a casa la sera, guidare veloce fra le buche
essere il perpetuo moto di un indefinito al di qua
sentire il bisogno di fare del male a qualcosa o a qualcuno.
Saggio sulla paura quale “trattato poetico” sulla paura. Tuttavia “saggio” sulla paura si può anche intendere come raggiungimento di una stato di consapevolezza: l’essere edotti sul male di vivere contemporaneo, conseguenza di un sistema economico e sociale iniquo e brutale. Nel filone delle opere di riferimento del genere, e parliamo qui di Francesco Targhetta nel suo Perciò veniamo bene nelle fotografie per quanto riguarda la poesia, e di Raffaele Alberto Ventura della Teoria della classe disagiata per la saggistica socio-economica, Fabrizio Miliucci trova una originale sintesi letteraria, davvero riuscita per autenticità e depurazione da qualsiasi interferenza retorica sia anacronistica che intellettualistica. Un’opera che merita di essere letta da un pubblico ancor più vasto di quello appartenente al pubblico marginale della poesia.
Saggio sulla paura, Pietre Vive Editore, 2022
SBATTERE
Molto spesso ho paura di andare a sbattere. Sogno
di tuffarmi da una piattaforma di cemento
cammino nel buio schermando lo spazio di gesti da insetto
mi alzo in piedi di scatto
e non mi ricordo perché.
***
Da dove arrivano i tonfi
le esplosioni le raffiche di vento
a questo quinto piano
esposto alla bufera. Il rumore
della distruzione ci penetra
le ossa, la cronaca
avanza dalla strada come un grido
e i pusher attraversano i semafori
già rossi, non pensano ai domani.
***
Costruiamo questa vita monca
fatta di atti mancati poche possibilità di tirare avanti.
Gli orizzonti che vediamo non sono lineari, hanno una piega
in mezzo come delle V infinitamente espanse.
Passiamo il sabato a discutere i difetti di un bilocale sulla Casilina
ipotizziamo che trasferirsi ancora più in periferia abbasserebbe la rata del
mutuo
attraversiamo Alessandrino Torre Maura Giardinetti e non vediamo niente.
Ma non è alienazione, è qualcosa che non sappiamo spiegare.
Il tempo si ammucchia fuori dalla finestra, il lavoro si assottiglia
come una candela, identità privata e collettiva diventano ogni giorno più
divaricate.
Nel legno della nostra convivenza, un parassita ha dissodato un solco.
Potremmo alzare la testa e vedere cosa è fuori, ma fuori
è lo specchio irriflesso di quello che è dentro, ovvero un bisogno
in cui siamo giocati fino all’ultimo lembo di pelle.
***
In quella famiglia bestemmiavano tutti, il nonno naturalmente, ma anche il padre la madre il figlio maggiore e la sua sorellina, che avrà avuto due a tre anni in meno di me. Aveva una bocca da camionista la poverina, ma ripeteva quello che le veniva detto in continuazione, porco di qua porco di là; essendo piccola metteva in filastrocca la blasfemia, bestemmiava la madre di nostro signore con una tale violenta felicità, reiterata in ritmi da salta-la-corda, che una sera me ne andai via stordito, dov’era la casa delle nostre brevissime, inconsapevoli estati.
Ogni tanto mi chiedo in che mondo sia nato e cresciuto, quanti sghembi annunciatori del caos ho incontrato sin da quando ero bambino: Peppe il Cavallaro, che raccontava le sue storie in una capanna di paglia – forse l’ultima lestra dell’Agro Pontino – e io apprendista antropologo, che provavo a catturarne gli osceni racconti – impicci di truffe, ricatti – con un piccolo registratore recuperato per l’occasione.
Era un fatto di assoluta normalità.
Un altro morì ammazzato durante l’estorsione di un tir. Mio padre non si dava più pace, mia madre esultava levando alte grida al signore. Pazzi. Ricordo il fucile puntato in faccia a mio fratello che diceva: – Piuttosto ammazzami a me! -; un inquietante figuro di nome Ajello o Agnello – agnello di dio che togli i peccati – che si attaccò interi giorni al citofono esigendo non so più quale credito – credo la prima volta che ebbi paura, cioè che capii di avere paura -; gli zingari con cui per un breve periodo fummo in commercio di oro e cavalli.
I primi giorni trascorsi da solo mi sorprendevo, volevo fermare la gente di Tor Marancia e dirgli ehi sono io, l’amico delle prostitute albanesi, dei ragazzi di vita romeni, allora com’è che si dice nella grande città?
***
Penso a quando questo libro sarà finito
io perderò il lavoro
lo sfratto verrà ingiunto
tu mi lascerai
e le analisi non saranno affatto rincuoranti.
La mia routine si cova nella certezza del disastro
d’altra parte me l’ha detto anche mia madre, prima o dopo
avviverà una lettera spedita dal comune
in cui ci sarà scritto
che è tutto da rifare.
***
Deve esserci stato un momento in cui qualcuno sulla nostra linea di sangue
ha provato a invertire il corso della natura.
Per un periodo della mia adolescenza io stesso ho trovato essenziale essere
divorato dall’ansia. Non c’era alcun filtro fra gli istinti vitali e un’atavica mo-
nomania, esprimevo in quel modo il bisogno degli altri.
È a causa di questo profondo senso di esistere che le nostre parabole hanno
la forma ogivale del desiderio. Un taglio le recide all’incontro fra la psiche e
il frammento presente dello stato reale.
Poiché nelle vene mi scorre un luminoso richiamo alla disgregazione, dob-
biamo essere stati allontanati dalla tribù, aver transitato in qualche eremo o
ghetto dove anziché pace abbiamo trovato miseria e rancore.
Capri espiatori mancati. Mia madre mio fratello e la memoria di mio padre
attraversano le strade degli esseri umani come se fossero altrove. Il nero cor-
vino del pelo ci avvicina e ci rassomiglia alla terra.
Nessun ritratto può restituire l’immagine di tutto questo, dimenticata fami-
glia che cammini in una perenne primavera d’inverno.
***
A quattordici anni mia madre già lavorava. Il boom le aveva donato un fu-
turo a suo modo radioso, sposarsi avere due figli farsi una casa. Quando
aspettava me aveva vent’anni e di certo sapeva più cose di me – che ora di
anni ne ho trenta – anche se non aveva studiato.
Da sempre operaia part-time in un’azienda di qui, dietro casa. Figlia di con-
tadini, avventizia privata dell’anima. Già dentro la crisi, andava per qualche
ora di pulizia. Senza sapersi atea ha pregato alla fine di ogni stagione perché
le rinnovassero un pezzo di carta.
Per me aveva sognato un posto in reparto in una fabbrica della provincia. E
quando mi dice io li ho fatti ma tu non avere mai figli, ricorda che sono pen-
sieri per tutta la vita, io rimango commosso e stordito – abortito e castrato a
un tempo – davanti al concetto della sua semplice vita.
Bellissimo il libro di Fabrizio Miliucci, presentato qui ottimamente (e con ampia scelta di testi) da Nino. Trovo molto interessante la breve ma importantissima riflessione sul vocabolo “necessario” e l’idea di “poesia necessaria” di cui si sente parlare un po’ troppo spesso. Sono del tutto d’accordo con Nino: quando la poesia è NUDA, scaturisce dalle viscere dell’autore, si fa linguaggio che colpisce e ferisce il lettore proprio perché non pone diaframmi di alcun tipo tra il verso e la vita che, anzi, corrono paralleli, s’intrecciano, si fondono, senza riparo, appunto. Allora sì, la poesia è “necessaria” e arriva al lettore – se il lettore sa e vuole accoglierla – con tutta la sua carica di disperata verità. Grazie Nino, un saluto a tutti!
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Grazie Sax, sai bene che questa nudità la percepisco anche nei tuoi testi. A presto… come ben sai.
Ninuz
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Carissimi, vi ringrazio di questa bella lettura, nella quale – inutile dirlo – mi rispecchio pienamente. Necessità non è volontà, questo per dire che il libro non è (volutamente) “a tesi”: scrivendo non avevo idea di dove sarei andato a finire. Mi ha colpito molto l’uso della parola “rassegnazione”, che mi ha fatto tornare in mente un testo, poi cassato, che voglio pubblicare qui:
Nei periodi più oscuri della mia vita
un poʼ per farmi coraggio, mi dicevo ci vuole rassegnazione.
Non so se la rassegnazione sia una valore così positivo
da informare, da sola, unʼintera visione del mondo.
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La rassegnazione è lo stato mentale ideale per non scottarsi più davanti all’ingiustizia della precarietà e della riduzione progressiva dei diritti. Ma è ideale per chi detiene le redini del potere. La rassegnazione è l’acqua da gettare sopra qualsiasi fuoco di insubordinazione.
Il tuo è un libro di poesia, una esperienza individuale, però ci stimola davvero tanto per quello che riguarda un discorso sociale ad ampio raggio.
Rompe un po’ i giochi di questa sovrabbondanza di scritture middle class.
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