di Cupido
Il vostro affezionatissimo si vergogna ad ammettere che è dovuto arrivare a quasi quarantadue anni di età prima di fare, sabato scorso, la tessera della Biblioteca Civica di Pordenone. Biblioteca che è un ambiente privilegiato, come qualsiasi luogo di culto; un ambiente in cui azioni e movimenti si uniformano spontaneamente a una liturgia che non si pensava di conoscere, e che invece riempie il corpo come una forma a lungo cercata. Ho salito la scala e ho percorso i corridoi non come chi lo fa per la prima volta, ma come chi facendolo per l’ennesima volta vuol continuare a credere che sia la prima. L’atmosfera era serale, invitante. Una folla di gente leggeva e studiava in silenzio. I libri, infiniti. Ho scelto dagli scaffali un romanzo di Abe Kobo, Viaggio d’inverno di Bertolucci e Sinopie di Orelli. Mi sono seduto in poltrona e ho cominciato a leggere da quest’ultimo, e per mezz’ora il tempo non è esistito, finché il telefono non mi è vibrato in tasca.
Ora, è proprio in questo spirito che ho scelto di iniziare una sequenza di “(ri)letture”: ammettere la vergogna per riuscire a superarla. Stralci di libri che abbiamo già letto, o che dovremmo aver già letto, ma che – ammettiamolo – può darsi che non conosciamo proprio: il “ri” è posto fra parentesi proprio per farsi perdonare la mancanza, enfatizzandola. La vergogna del vostro affezionatissimo è anche quella di non aver trovato ancora una soluzione pacifica, nel proprio cuore, al problema di quanto poco si possa leggere in una vita, pur mettendocela tutta: di che minima frazione della biblioteca universale vada a formare la nostra piccola biblioteca intima. È un dato che va accettato con grazia, non appena ci si rende conto di non essere immortali. Ci proviamo.
Tre pezzi, con alcune chiose brevi e dilettantesche.
A Lucia, poco oltre i tre anni
«Di chi è questo odore?» «Questo odore
è del sambuco.» «Del san cosa?» «Del sambuco,
d’una pianta diversa dal pino sotto cui siamo passati
tante volte in questa falsa estate;
coi fiori del sambuco la nonna, la nonna Maria,
faceva la gazosa.» «Sì, è morta.»
Dura l’odore del sambuco, così diverso da quello del pino,
l’odore fresco del sambuco, parente
della robinia, qui, dove rane e immondizie
esagerano, e il sole
sembra affliggerti, figlia
nemica di ciascun crudele, che a volte mi guardi come sapessi
la vita che noi morti qui viviamo.
Sera di San Giuseppe
Siediti qui. Ripòsati. Ricorda
con me questo sabato
del Padre Putativo che avremmo
festeggiato laggiù, dalle tue parti,
se nostra figlia non avesse preso il morbillo.
Per fortuna ci sono le nonne.
Col palloncino rosso e un fascio
di fiori gialli che altro non erano
che le forsizie di cui lessi in Benn,
per fortuna è venuta tua madre:
sùbito così nonna, così sagra
nella nostra penombra al primo bacio
che non potevo darle un bacio. Del resto, qualcuno
doveva pur liberarla da tutto quel giallo
perché potesse abbracciare
l’altro giallo: balzata al trambusto dal letto
col pigiamino giallo, veramente Giovanna.
E così siamo andati a vedere un po’ di patria
diversa da quella d’ogni giorno, con gente
rompiscatole fin dall’infanzia, che incontri al mare e in montagna,
frammista a tipi forestieri, belli
buoni e sani come porcini;
ma che lago (quasi non si gonfia
la vena sul dorso della tua mano),
e dall’ombra alla luce improvviso il battello
che parla come agli adulti il cuore;
e: «Che figlio», dicevi, «tu non l’hai visto
muoversi», far segno
con l’arco della schiena; infine il ronco
più volte sognato, la spalla
modellata con sovrumana sapienza,
lasciata appena dal sole
ma fiorita di piccoli falò.
Cammineremo ancora. A noi non serve
contare alla rovescia, lo sai:
piace anche troppo ai nostri figli il buio.
Ma speriamo che vada tutto bene:
secondìpara, il tempo del travaglio
dovrebbe sensibilmente accorciarsi.
Ecco la prova che si possono incrociare riferimenti danteschi, colloquialismi, citazioni colte, conversazioni trascritte stenograficamente, sentimenti privati, assenza d’ironia e ironia compiaciuta, e tirarne fuori una poesia bella, “buona e sana come porcini”, bassa e profonda, leggera e pesante al tempo stesso. Mi viene da dire che la poesia non funziona davvero se non mette almeno un po’ in imbarazzo chi la scrive, di fronte ai familiari come agli sconosciuti. Qui l’imbarazzo si sente, e si sente l’amore, e la malinconia, ed è una cosa che fa bene.
A un amico
Perché s’avveri il detto di Giacobbe
Perché la vacca
quella di pura razza bruna
svittese e quella
pezzata, bicolore come certi
cieli
E il colonnello
fenicottero senza
ali
Perché tu riesca a convincere
non dico un colonnello né un maggiore
ma il vicino di casa
che l’uomo che difendi non è un povero bambo
né una pecora nera nella sua dinastia
ma una persona straordinariamente seria
un vero obiettore di coscienza
Perché tu stesso non sia preso per bambo
dagli «amici» di ieri, dai «politici»,
dai pavidi serpenti che non si disquamano mai
Perféchefé sifì
Perché la vacca
nell’improvviso verde di città
e il colonnello
del quale conosciamo abbastanza
le doti ereditarie (utinam
scomparissero prima dei tucani!)
Perché élleno […] élleno […] éllino
locuste-manigoldi
di Dio (confer Bernardino da Siena)
Perché i grossi bigatti della mafia
senza lupara
sàltino al pari dei secchi frantumi
di letame tra i denti,
a luglio, dello stancato rastrello
Perché la vacca ci dica un po’ di quel che sa
nel linguaggio dell’anima
diverso dal linguaggio delle rughe
e il colonnello arrossisca sentendo muggire la vacca
nel prato o vedendo alla tivù
la jacana che va su le ninfee
Perché il Danubio non lo facciano rosso
del sangue dei pellicani
Perché non ce ne restiamo lì senza infamia e senza lode
o come un rinoceronte
senza neanche un uccello sulla groppa
Per questo e per altro
con gli augùri di buon anno
Be’, questa è molto diversa. Qui si gioca a tutt’un altro gioco. E va letta diversamente, certo. Ma la voce è la stessa: la voce, cioè il motivo per cui crediamo a quello che leggiamo come al prodotto di una volontà, e che quindi ci fa accettare lo sperimentatore perché abbiamo creduto all’uomo. Mi fa pensare – scusate – all’Anno che verrà di Lucio Dalla, con più vacche e colonnelli e un senso più urgente di tenere strette le maglie della realtà prima che si sfaldi.
Giorgio Orelli, Sinopie. (Che poi sono i disegni preparatori degli affreschi). Mondadori, 1977. Da rileggere.
non c’è tempo per tutta la bellezza.
ma c’è tempo per la bellezza.
grazie.
"Mi piace"Piace a 3 people
L’ha ripubblicato su Guido Qe ha commentato:
Su Perìgeion, una (ri?)lettura di Giorgio Orelli.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Splendide righe, Guido, grazie. E grazie, soprattutto, per aver detto alla fine cosa sono le sinopie. Ho guardato, lo confesso, un po’ di nascosto come una ladra, come se tu potessi vedermi e io me ne vergognassi! E ho viaggiato – si fa per dire – per qualche minuto sulle coste del Mar Nero… e mi sentivo ignorante, poverella, derubata di tutto ciò che una volta forse sapevo e non so più, dizionario dimenticato, devastato dalle stupidaggini del mio piccolo mondo quotidiano fatto di – quante parole belle? – poche, pochissime.
Ma alla fine tu scrivi cosa sono le sinopie, e se lo scrivi allora vuol dire che forse era lecito non saperlo, che non è scontato, non è banale, e io mi sento un po’ meglio, sollevata, e posso persino osare questa confessione senza arrossire troppo.
E grazie anche per queste poesie di Orelli, che sono la bellissima scoperta di questo giorno. Non tutti i giorni sono così generosi.
"Mi piace"Piace a 1 persona
È proprio perché neanch’io lo sapevo che ho inserito la nota. Lo spirito di queste “(ri)letture” è anche togliersi di dosso un imbarazzo che secondo me non fa bene al discorso sulla cultura. Grazie della visita e della lettura!
"Mi piace""Mi piace"