perìgeion

un atto di poesia

In memoria di Lorenzo Leporati, di Massimo Pamio

 

di Massimo Pamio

 

 

L’INSOSTENIBILE NULLA DELLA POESIA

Quando l’umanità perde un Poeta, non fioriranno più le sue parole, i suoi sentimenti non si sposeranno con il sole, con l’invenzione fantastica, con l’allegoria del mondo. Quando si smarriscono questi topoi dell’esistere, accade di percepire meno la carezza del vento, di gioire meno della potenza del fuoco, di non vibrare come prima all’occhieggiare freddo e intermittente del cosmo stellato, gemendo di sperdutezza alla trapunta notturna stesa con pietà sui nostri affetti.

E noi restiamo cose inespresse, il nostro dire diventa ancor più sordo e tutto acquista una luce in perdita. Perdendo l’ombra di Lorenzo Leporati che è stato un luogo della mia giovinezza, ma anche e soprattutto un riferimento esistenziale, ho gettato per sempre una parte di me in un oscuro pozzo senza fondo.

Dove ora sei fratello della mia giovinezza? Dove sono i tuoi gesti fin d’allora così misurati e precisi, con cui cucivi, nel silenzio, maneggiando ago e filo, le pagine di librini, riproducendo pedissequamente la pazienza antica – alla maniera benedettina – dell’intelligente motilità dell’artigiano: di colui che si elegge creatore grazie alle misure del mondo matematicamente accolte e riprese e riversate con generosa perspicacia nel proprio movimento. Un movimento che si sposava con quello del mondo, un corrispondere di fabrilità e di devozione: un primo atto di mistica intimità con l’Assoluto. Perché se l’Assoluto ha impresso un moto all’universo, ebbene quel moto è il Suo, il Suo, che può incontrarsi con il Nostro.

Lorenzo aveva creato una piccola casa editrice, La Casa dei Parti, che rispondeva già ai suoi interessi per il pensiero mistico orientale, che poi avrebbe approfondito grazie agli insegnamenti di Gurdjieff. Un mistico fin dalla giovinezza, una persona imperscrutabile, profonda e anche misteriosa, chiusa in sé e nelle proprie gioie, che addolciva con il senso di una profonda vivacissima ironia, di una predisposizione per la gioia e per l’armonia. Battiato, Giuni Russo, Alice erano i nostri cantanti, ma gli insegnamenti del grande mistico armeno rifulgevano in lui. Scrive Gurdjieff a una donna, forse la figlia: “Fissa la tua attenzione su te stessa. Sii cosciente in ogni istante di ciò che pensi, senti, desideri e fai. Finisci sempre quello che hai iniziato. Fai quello che stai facendo nel migliore dei modi possibili. Non t’incatenare a niente che alla lunga ti distrugga. Sviluppa la tua generosità senza testimoni. Tratta ogni persona come se fosse un parente stretto. Metti in ordine quello che hai disordinato. Impara a ricevere, ringrazia per ogni dono. Smetti di autodefinirti. Non mentire né rubare, se lo fai, menti e rubi a te stessa. Aiuta il tuo prossimo senza renderlo dipendente. Non occupare troppo spazio. Non fare rumore né gesti inutili. Se non la possiedi, imita la fede. Non lasciarti impressionare da personalità forti. Non impossessarti di niente né di nessuno. Distribuisci con equità. Non sedurre. Mangia e dormi lo stretto necessario. Non parlare dei tuoi problemi personali. Non giudicare né discriminare quando non conosci la maggior parte dei fatti. Non stabilire amicizie inutili. Non seguire mode. Non venderti. Rispetta i contratti che hai firmato. Sii puntuale. Non invidiare i beni o gli esiti del prossimo. Parla solo di ciò che è necessario. Non pensare ai benefici che ti procurerà la tua opera. Giammai minaccia. Realizza le tue promesse. In una disputa, mettiti nei panni dell’altro. Ammetti che qualcuno ti superi. Vinci le tue paure. Aiuta l’altro ad aiutare sé stesso. Vinci le tue antipatie ed avvicinati alle persone che desideri rifiutare. Trasforma il tuo orgoglio in dignità. Trasforma la tua collera in creatività. Trasforma la tua avarizia in rispetto per la bellezza. Trasforma la tua invidia in ammirazione per i valori dell’altro. Trasforma il tuo odio in carità. Non ti lodare né insultare. Tratta ciò che non ti appartiene come se ti appartenesse. Non lamentarti. Sviluppa la tua immaginazione. Non dare ordini solo per il piacere di essere obbedito. Paga i servizi che ti danno. Non fare propaganda delle tue opere o idee. Non cercare di risvegliare negli altri sentimenti verso di te come: pietà, simpatia, ammirazione, complicità. Non cercare di distinguerti per la tua apparenza. Non contraddire mai, solo taci. Non contrarre debiti, acquista e paga subito. Se offendi qualcuno, chiedigli scusa. Se l’hai offeso pubblicamente, scusati in pubblico. Se ti rendi conto di aver detto qualcosa di sbagliato, non insistere in quell’errore per orgoglio e desisti immediatamente dai tuoi propositi. Non difendere vecchie idee solo perché fosti tu ad enunciarle. Non conservare oggetti inutili. Non decorarti con idee altrui. Non fotografarti insieme a personaggi famosi. Non rendere conto a nessuno, sii il tuo proprio giudice. Non definirti mai per quello che possiedi. Non parlare mai di te senza concederti la possibilità di cambiare. Renditi conto che niente è tuo. Quando ti chiedono la tua opinione su qualcuno o qualcosa, dì solamente le sue qualità. Quando ti ammali, invece di odiare quel male, consideralo tuo maestro. Non guardare con la coda dell’occhio, guarda fisso. Non dimenticare i tuoi morti, però riserva loro un luogo limitato che gli impedisca di invadere la tua vita. Nel luogo in cui vivi, riserva sempre un posto a ciò che è sacro. Quando realizzi un servizio non far risaltare i tuoi sforzi. Se decidi di lavorare per gli altri, fallo con piacere. Se dubiti tra fare e non fare, rischia e fa’. Non cercare di essere tutto per il tuo compagno; ammetti che cerchi in un altro ciò che tu non puoi dargli. Quando qualcuno ha il suo pubblico, non andare a contraddirlo e a rubargli l’audience. Vivi di denaro guadagnato da te. Non ti invischiare in avventure amorose. Non ti vantare delle tue debolezze. Non visitare mai nessuno solo per riempire il tuo tempo. Ottieni per distribuire. Se stai meditando e arriva un diavolo, metti quel diavolo a meditare.”

Solo con la pazienza dell’artigiano o del monaco si possono osservare queste regole e fare della propria vita un Incontro con il Sé del Mondo.

Con Lorenzo abbiamo creato libriccini e iniziative, e fondato la casa editrice Noubs. Il nome lo abbiamo scelto aprendo a caso la pagina di un libro di Ellemire Zolla. Lorenzo cuciva, pazientemente, le regole della sua esistenza, per farne un modello di perfezione, sapendo che nulla è perfetto se non si comprende in sé l’assoluto dell’imperfezione. Ci sarà riuscito? Vale tentare.

È chiaro che la poesia per Lorenzo era fatta di slanci paradossalmente mistici e di una ricerca del silenzio, della negazione di ogni sintassi: la vita è già di per sé poesia, come può il linguaggio portarla su un secondo livello, se non perdendone una parte essenziale del senso?

La poesia per Lorenzo, uno dei più interessanti poeti della sua generazione (era nato nel febbraio del 1966 a Chieti, vissuto a Siena, è morto a Chieti il 13 maggio del 2024), è una lunga meditazione aurorale che si compie, prima di ogni gesto, per rendersi sacro il mondo. La parola ne è il tramite oscuro, che vetrifica, gelatinizza, illumina controluce, ostenta oscenamente il reale. Ogni elemento è perfettamente racchiuso in sé, sebbene privo di alcun senso: è cosa tra le cose, insignificanza assoluta. Impermeabile ad ogni tentativo mistico, ne rappresenta anche la soluzione. La cosa è cornice dell’altra, d’ogni altra cosa, di cui dunque riferisce, di cui richiama forma e contenuto, e traccia del suo essere. Esistono spazi ad una sola dimensione, tutto è piatto e risponde di sé all’interno di un mosaico inconoscibile e che però costituisce il Mondo, e la sua Bellezza. Il mondo è la verità dell’essere in cui lo spazio si eventua, pura superficie tra altre superfici, capacità di ospitare tasselli su tasselli, atomo tra gli atomi, vuoto tra i vuoti. La poesia è la piuma leggera che cade al suolo e di cui solo i poeti riescono ad udire il suono, un’ala del vuoto che annuncia la sua essenza di molecola creaturale e che presto riposerà in una cavità invisibile, per partecipare come tessera a formare il mosaico della forma universale dell’Unico. Perché se tutto torna al suo posto deve esserci un motivo. Freccia mancante al bersaglio- se tutto riprende forma nell’Unico, forse ogni elemento rivela la sua mancanza di destinazione, il suo mancare al destino proprio. Ed è proprio la mancanza di destino che egli vede nelle cose a spingere Leporati alla poesia, a cercare la bellezza, il koan, il primo verso che viene da Dio, simbolo di questo non-luogo, luogo del mancare continuo al destino, che è anche assentarsi al destino, non solo errare ma anche sottrarsi costante. L’uomo si compie per mancanza di destino. Ciò che invece dà il destino è il fatto comune quotidiano: l’Insignificante (se non c’è un fine, la letteratura non ha fine). Non c’è senso al mondo ma solo il verificarsi di piccoli eventi insignificanti che però rivelano l’essere come mancare all’appuntamento finale, continuo (so)stare e finire in questi piccoli casi che danno il senso al non-senso universale. Il piccolo evento conferma che la freccia manca il bersaglio. Se il tempo sembra dare destino all’uomo, il piccolo evento lo sottrae all’incombenza della menzogna. Nel contrarsi dell’istante c’è posto per tutte le cose, e per l’uomo, e per il poeta.

Il poeta però sa che ogni cosa torna al suo posto, nella Forma dell’Unico. All’uomo sfugge la metafisica, il senso del Tutto. Perciò al poeta (all’uomo) non resta che chiedere la specularità, la meccanica della contemplazione, cercare di comprendere almeno perché due tasselli vicini fanno parte del mosaico, perché proprio quelli. Perché il poeta dialoga con Cristina Campo, con Emily Dickinson, con Holderlin, con san Giovanni della Croce. La verità è una domanda o è una risposta?

 

Sopra una poesia di Juana Inés de la Cruz

 

Ora viene a trovarmi

come si farebbe con un malato,

negli orari di visita stabiliti.

Per portare conforto a se stesso,

come in fondo a un mare

farebbero i colati a picco. Gli annegati.

Sbracciandosi tra i flutti, per dirmi

che appartiene al torpore dei fondali.

 

E viene a trovarmi di nascosto,

come non si farebbe con un amato.

Con scarpe chiodate e un bocciolo

serrato nel pugno. Come un pettirosso.

Vaticinio per le sue membra dorate, per dire

che appartengo alla solitudine delle vette.

 

O libro tibetano delle circostanze,

racchetta da neve su un altopiano fiorito.

Ho compassione per le mie vite precedenti,

per quelle inesistenti.

 

Cipresso bianco

 

Dissidente, frocio o adultero che sia,

da qualche parte un uomo viene issato

come si può fare anche con una vela.

 

Ma se la morte somiglia a un veleggiare,

a un essere traghettati dalla cattività di un albero,

senza radici o rami la forca ci pone un quesito.

 

Con quella sua forma simile a una madia,

calce e farina al cospetto del deliquio:

cipresso imbiancato sulle rive di Mnemosyne.

 

Una domanda sul dominio del pudore,

per tutti quei morti ammazzati e poi coperti

come l’impasto sotto un canovaccio.

 

Anche la lievitazione nasconde

un pensiero vergognoso?

 

Missa sicca per die

 

Come se non fossi mai appartenuto.

E avrei voluto qualcuno di caro accanto,

il cavo di una mano da portare alla bocca.

 

Lo sguardo infossato

e bovino – dell’angelo vendicatore.

 

Che contempla la trasparenza

del mio sorso d’acqua, della mia sete

di riverbero.

 

Prima di mandare giù questa croce.

 

Di un crocefisso che non mi ascolta quando gli parlo,

come se sentisse solo il dolore dei suoi chiodi.

Perché la vendetta non è quella cosa sgradevole

che rende gentile l’odio.

 

È la scaturigine che diventa caligine nella gola.

Di una fonte che disseta, solo annegando.

 

La dimora inutile

 

Con passi veloci su foglie di edera,

che hanno la forma del cuore. Una casa,

utenze domestiche. Piatti e posate.

 

L’esilio è qualcosa di fosco che aleggia

sopra la dissipazione.

 

Calugine, di un frutto un po’ andato

che si potrebbe mangiare. Ma che nessuno

mangerà.

 

Esilio come rifugio. Che funziona

se le cose non vanno come dovrebbero.

E restano da qualche altra parte.

 

Si comprende che non è giusto,

ma si può benissimo continuare a vivere.

 

Sapendo che la giustizia si posa su un piatto,

come un’ape si posa per natura a pungere.

In questa dimora, inutile come il cielo.

 

Come le foglie calpestate,

pressappoco a un cuore che batte.

 

 

Glossario del cucito

 

Ingeborg cara

 

la Verità è soltanto un lustrino

che si sfila dal suo ordito

 

con reprensibile eleganza

vacilla sulla vampa

 

e arde

 

 

La letteratura non è un fine

 

La letteratura non è un fine.

Ma sembra che funzioni accanto

a una sdraio. O in fila sul patibolo,

in attesa del proprio turno.

Nella volontà di combaciare

con uno sprezzante simulacro.

Come la livrea ingannevole

di certe falene. O la doratura,

su una tavola incrinata.

Per passare inosservata,

per essere la stessa cosa

di una venatura. Effimera.

Come la tenebra nel cavo

delle palpebre, in un sonno

che non è morte provvisoria.

Ricordo che si desta, senza di noi.

 

Lorenzo Leporati, da “Il canto delle pescatrici”, Noubs, Chieti, 2012

 

Lorenzo Leporati, poeta, traduttore, saggista. Nato a Chieti, vissuto a Siena, aveva fondato le Edizioni Noubs con Massimo Pamio. Aveva vinto il Premio Montale di poesia da giovanissimo, scriveva testi raffinati e profondi, intrisi di una potente spiritualità. Con Camillo Gasbarri aveva realizzato due preziosi libri-oggetto sui palazzi e sulle chiese di Chieti. Di origini parmensi (il suo bisnonno Dante, ufficiale postale, si trasferì da Parma in Abruzzo agli inizi del 900 e qui trovò la morte nel 1918 dopo aver contratto l’influenza spagnola), cominciò a scrivere poesie da bambino. A vent’anni, folgorato dai Pisan Cantos di Ezra Pound, si avventurò nel vorticismo alla ricerca del proprio stile, dedicandosi nel frattempo allo studio degli ideogrammi nella poesia tradizionale cinese e giapponese. Nel 1990 si laureò in Economia a Pescara. Nel 1994 creò La casa dei parti, casa editrice specializzata in libri di poesia a tiratura limitata. Nel 1998 curò una riedizione dei Vestigj della storia del sonetto italiano dall’anno MCC al MDCCC di Ugo Foscolo. Nel 2000 fu uno dei vincitori del Premio Montale. Presente nell’antologia 7 poeti del premio Montale, (Crocetti Editore, Milano 2001). Studioso di mistica e poesia religiosa, tradusse, tra l’altro, poesie di Rabindranath Tagore, Matsuo Bashō e Yosa Buson. Seguì gli insegnamenti di Gurdjieff. Si sono interessati al suo lavoro con interventi critici su riviste, pubblicazioni o in qualità di membri di giuria di premi letterari: Maria Luisa Spaziani, Mario Luzi, Roberto Pazzi, Franco Loi, Marco Marchi, Gabriele Mandel, Giovanna Ioli, Roberto Rossi Precerutti.

 

 

Un commento su “In memoria di Lorenzo Leporati, di Massimo Pamio

  1. ninoiacovella
    15/06/2024

    Una grande perdita per tutti. Non conoscevo la poesia di Lorenzo Leporati e verrò da te, Massimo, per ottenere il libro dal quale sono tratti che questi meravigliosi testi

    Piace a 1 persona

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Questa voce è stata pubblicata il 15/06/2024 da in ospiti, poesia con tag , , .

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