«Abbiamo avuto la possibilità di studiare, di imparare “la sublime lingua borghese”, non possiamo tradire il compito che ci è stato assegnato, quando ci dicevano: studia. Per quanto i nostri libri possano sembrare messaggi in bottiglia in mezzo ai razzi lanciati dalle batterie di fuoco dell’industria culturale, non possiamo tirarci indietro. Siamo costretti a scrivere noi queste storie operaie, a tutti i costi. Siamo la nuova classe lavoratrice e abbiamo una voce che è diversa da quella dei nostri vecchi. Siamo la nuova working class, migrante e intersezionale, precaria, sfruttata e tutt’altro che morta: peccato per chi ci pensa in forma statica, come un gruppo di maschi attempati in tuta blu. In realtà la classe lavoratrice ribolle come un mosto in fermentazione tumultuosa: si scompone per linee etniche, di genere e di salario. E si ricompone nelle piazze e nei conflitti sociali.»
Così Alberto Prunetti nel suo recente Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class (minimum fax, 2022) motiva un fenomeno certamente editoriale ma sostanzialmente politico e culturale: l’emergere, l’affermarsi e il diffondersi di una letteratura scritta in prima persona dai lavoratori e dagli operai, prevalentemente in area anglosassone e francese ma che anche nel nostro paese comincia a mostrare qualcosa di più che semplici occorrenze sporadiche. Se nel passato abbiamo conosciuto la scrittura operaia di un Luigi Di Ruscio o di un Tommaso Di Ciaula, la poesia operaia di Ferruccio Brugnaro e ancora di Di Ruscio, in anni più recenti incontrato quelle di Fabio Franzin e Nadia Agustoni, oggi conosciamo anche la poesia di Matteo Rusconi, autore di Trucioli (Aut Aut Edizioni, Palermo, 2021, pp. 94).
Già il titolo indica al lettore una traccia precisa: trucioli, scarti, sfridi, residui. Si parla di materiali ma si parla anche e soprattutto di uomini. Perché tali sono considerati i lavoratori: scarti, residui, trucioli da spazzare via. Non è un caso che Rusconi, a conclusione della sua opera, onori la memoria dei lavoratori deceduti: «infine, il mio ultimo pensiero è per tutti gli operai morti sul lavoro: che rimanga sempre vivo il loro ricordo». E non si tratta di un espediente retorico, ma di un elemento essenziale della coscienza e della solidarietà di classe. Giusto qualche numero per capire meglio: nel solo 2022 (i dati sono di fonte Inail, riportati in la Repubblica del 03.02.2023, p. 35) sono morti sul posto di lavoro 1090 lavoratori e operai, a cui vanno aggiunti circa 700.000 feriti e 60.774 malattie professionali. E sono numeri per difetto, perché non vengono computati quelli non denunciati, relativi ai lavoratori al nero e/o precari. Però, sia mai, vietato dire che questa è violenza (e per di più sistemica). Se dividiamo questi numeri per i giorni lavorativi possiamo farci una idea di quale sia la condizione operaia e della classe lavoratrice nel nostro paese. E poi, pensiamoci: quante volte ci è capitato di leggere o sentire il ritornello “la classe operaia non esiste più”? Ovviamente non è così, e qualcuno, sempre più spesso, prende una penna e scrive, scrive romanzi e, come nel caso di Matteo Rusconi, operaio metalmeccanico, poesia.
#44
Mi porto a casa il rumore della fabbrica
come un reduce porta dentro di sé
il ricordo della guerra.
Nella doccia ritrovo
lo stridere del metallo
il battere del martello
e tra i capelli ho sparsi i trucioli di un cristo di ferro.
Il tempo ciclo è importante più dell’anima,
la velocità è tutto
gli avanzamenti sono tutto
e il mio invecchiare è il niente,
io sono solo un meccanismo sostituibile.
Mi porto a casa l’odore della fabbrica
come un cane che ritorna da un tuffo nella fogna
e sul limitare penso spesso
al tempo perso là dentro
alla poesia di Prévert nel mio armadietto
e al sole che brucia le spalle
mentre alla mia pelle ci ha già pensato il solvente.
Già, perché la fabbrica non è un lavoro come un altro, la fabbrica è qualcosa che ti pervade, ti assedia, ti succhia, ti abita:
Ferro
La poesia è una fabbrica
una città meccanica
un convoglio industriale
e io sono un poeta operaio
un poeta del ferro
un poeta d’acciaio.
Non riesco più a pulirmi
dagli angoli neri delle mie mani;
da una cicatrice sulla nocca
il ferro mi ha messo radici dentro.
Quello scritto da Rusconi è un poema in versi che accompagna il lettore direttamente al tornio, sul posto di lavoro: la produzione a turni (la fabbrica non chiude mai)
La fabbrica è una bestia che nera non riposa,
ha denti d’acciaio cariati di polietilene
con cui mi morde polpastrelli e palpebre
e la strada tortuosa è la sua lingua che viscida mi cattura.
La fabbrica è una bestia che mi insegue giorno e sera
reclama la mia schiena
mi vuole possedere con i suoi meccanismi
e poi la postazione di lavoro («Contemplo da vent’anni/ lo stesso soffitto./ Conosco ogni crepa/ ho dato un nome a ogni insetto/ che ci abita,/ bevo l’olio che giallo riga il muro/ fino al pavimento», p. 23), i rapporti, anche contraddittori, con gli altri operai (Lunedì, p. 57) e i superiori (Bolle, p. 42), i lavoratori precari, la mensa, gli addetti alle pulizie («La ragazza delle pulizie/ ha vent’anni appena (…)/ Non le è permesso di entrare/ mentre stiamo sgobbando/ nemmeno di parlare all’operaio/ che le passa a fianco», p. 51), la pausa caffè (Regolamento, p. 54), e poi ancora gli straordinari, i richiami disciplinari (Contestazione disciplinare, p. 35, dove «si richiede la massima devozione/ e di scambiare il volto di Dio con quello del padrone»), la minaccia di crisi e la paura del licenziamento (Quando c’è stata la crisi, p. 76), la diffusione del covid-19 («E intanto che continua estenuante/ lo scontro fra sindacati e Stato/ per la chiusura degli impianti,/ noi siamo giunti/ al decimo giorno con indosso/ la stessa mascherina monouso./ (…)/ tutta la quarantena sulla nostra faccia», p. 60): la penna dell’autore mette in versi con estrema precisione il micromondo di un reparto di fabbrica, in una apparente varietà di figure e situazioni, tutte subordinate all’imperativo della produttività e del fatturato, ma che invece rappresentano sempre La solita storia (p. 84), titolo dell’ultima poesia, perché dalla fabbrica non si esce mai.
Oggi non parliamo più di alienazione o di controllo operaio della produzione, non manifestiamo più perché “il potere deve essere operaio” (per dirla con le parole di Rusconi: «il ricordo/ di una classe che in piazza ha fatto tremare il padrone porco»), oggi discettiamo di supply chain, di just in time, di total quality management, ma la sostanza è la medesima: la nuda vita della condizione operaia è la totale spersonalizzazione, la subordinazione al comando come ben recitano i versi di Rusconi:
Dieci ore al chiuso
tra le mura di una fabbrica
mi costringono a dimenticare
di cosa sia fatta l’aria.
Quello che mi riempie fino ai polsi oramai
in gran parte non è più ossigeno,
è acqua che cola marcia
dal rubinetto del cassone del ferro.
I peli del mio naso
sono fili di ruggine e truciolo
e i calli mi parlano
di un padrone lucido e freddo, una lamina
di acciaio temprato.
Oppure:
Non faccio altro
che caricare e scaricare il mandrino
e attendere la fine dell’ultimo pezzo.
Eseguo cambi di lavorazione
sostituisco bareni e inserti
modifico misure
tolgo la bava in eccesso.
E ancora:
Il tornio è in movimento, produce venti pezzi all’ora
ma se spingo di più potrei farne una piccola scorta
per staccarmi dai mandrini, dalle loro accelerazioni.
Io sono in movimento, ho gambe stanche
ho le ginocchia sghembe come ganasce che serrano e allentano la presa
in continuazione – precetto di alienazione.
Il tornio e io siamo in movimento costante
e seppure immobili balliamo i passi di un valzer
nell’eco dei motori.
La fabbrica, il reparto, il tornio sono – magari per contrasto e riscatto, per salvamento – anche il luogo della soglia, oltre la quale Rusconi incontra la poesia:
Carcasse di metallo, legno morto e muffa putrida
sono estremità delle mie mani
anche il sole è un compagno lavoratore
che ansima sotto il fardello della fatica.
È tra questi miasmi che nascono i miei versi:
l’orecchio accoglie una folla di rumori
l’occhio scarta il superfluo
gli alberi intorno allo sforzo umano
applaudono le melodie della campagna
e del vento.
Per fortuna esiste il linguaggio, per fortuna esiste la poesia: è ad essa che Rusconi affida un suo proprio percorso di “salvezza”:
A volte mi capita di fermarmi a osservare
le ganasce ruotare a mille
e mi entra in testa una poesia
che rimane lì, nella sua forma
a giudicarmi.
A volte una poesia mi cade dalla testa
come fosse un caschetto slacciato:
può sembrare una schifezza
per me è salvezza e vita che filtra
ed è in questo passaggio, in questo varco che avviene il potenziamento della sua scrittura, perché “salvezza” non significa solo affrancamento da una condizione di subordinazione e abbrutimento lavorativo, ma presa totale di coscienza della propria condizione: è così che la parola letteraria e poetica si fa anche parola di denuncia politica verso un sistema economico (il capitalismo), verso l’organizzazione industriale che lo struttura, verso la gerarchia di fabbrica e la disciplina sociale che ne garantiscono il potere. E per quanto soffocante e gravoso sia il contesto, Rusconi utilizza una sua propria delicata leggerezza per avvicinare ogni lettore, o per meglio dire per consentire ad ogni lettore di avvicinarsi alla realtà del lavoro di fabbrica. Rusconi scrive in uno stile essenziale, immediato, diretto, semplice e allo stesso tempo complesso perché riuscire a trasmettere al lettore la fatica stordente della meccanica ripetitività del gesto, gli odori di olio e di sudore, la puzza che diventa una seconda pelle, la libertà della mente che apre una prospettiva di fuga non deve essere per niente facile e richiede un sapiente lavoro di scrittura. È grazie alla parola poetica che di pagina in pagina, di verso in verso siamo trasportati al tornio, al reparto, al cospetto di colleghi e capi fino alla Direzione, “vivendo” una intera giornata di lavoro, e vivendole così tutte essendo l’una uguale a tutte le altre.
La classe operaia non esiste più, dicevamo. Naturalmente – come lo stesso Rusconi testimonia – non è vero, solo che gli operai non hanno voce pubblica, non hanno – come si dice oggi – visibilità, il “prodotto” non vende, non buca gli schermi. Pensiamo invece alla logistica, comparto essenziale nell’economia post-fordista, che rappresenta il sistema nervoso della movimentazione delle merci nell’ambito dell’intermediazione digitale, ovvero il contesto nel quale – volenti o nolenti – siamo indotti a vivere, come abbiamo tutti imparato al tempo della pandemia: non a caso è proprio nel settore della logistica che il conflitto sociale e sindacale, che è sempre conflitto di classe, ha vissuto e vive momenti di elevata intensità e radicalità. Ma pensiamo anche alla fabbrica industriale, per esempio alla straordinaria esperienza di mobilitazione promossa dal Collettivo di fabbrica della Gkn di Campi Bisenzio (Firenze): di fronte al proposito della proprietà aziendale (un fondo speculativo) di chiudere la fabbrica, gli operai uniti e riuniti sono stati capaci di portare il conflitto di classe fuori dalla fabbrica e di mobilitare e organizzare nel territorio una comunità popolare di mutua solidarietà attorno a una parola d’ordine essenziale: Insorgiamo (la storia è raccontata in prima persona in Insorgiamo. Diario collettivo di una lotta operaia (e non solo), Alegre edizioni, 2022).
Ecco quindi che la presa di parola come quella di Matteo Rusconi acquisisce un inestimabile valore multiplo: non è solo affermazione di vita tramite lo strumento della poesia ma anche rivendicazione dell’orgoglio operaio e più ancora diventa momento di lotta e affermazione di classe. Secondo modalità e linguaggi anche nuovi che, sperabilmente sempre più diffusi, sarà bene ascoltare, imparare e sostenere.
Perché, riprendendo nuovamente le parole di Prunetti, «fare letteratura working class (…) significa sentire un impegno di responsabilità verso le storie delle persone di classe lavoratrice e la maniera in cui le rappresentiamo. E poi anche soffiare sul fuoco, raccontare il conflitto, alimentarlo con le parole scritte. Storicizzare. Ritrovare fili rossi, brandelli di memorie che legano la vecchia e la nuova classe lavoratrice. Raccontarsi dall’interno della nostra classe, con le nostre parole, per non farsi raccontare dagli altri, per non subire i “loro” racconti, che spesso ci schiacciano a terra e ci umiliano» (p. 30); «La letteratura working class cerca di contribuire, con tutti i limiti e le potenzialità di un testo narrativo, alla formazione di un nuovo immaginario per le classi lavoratrici» (p. 53); «Raccontare storie working class vuol dire continuare la lotta con altre armi, quelle dell’immaginario» (p. 115).
Può essere utile precisare che il termine working class non rimanda soltanto a una generale classe lavoratrice e operaia, ma comprende in maniera più ampia e composita tutte le figure professionali, semi-professionali e non, occupate e sottoccupate, che svolgono lavori al nero, lavori precari e lavori sottopagati di qualsiasi genere.
© Foto dell’Autore
Matteo Rusconi, nato a Lodi nel 1979, operaio metalmeccanico, ha pubblicato le raccolte Sigarette – Venti poesie per smettere domani (2017, edizioni ilmiolibro.it), Trucioli (2021, Aut Aut Edizioni) e #smartpoetry (2022, Porto Seguro Editore). Suoi testi appaiono in diverse antologie di poesia contemporanea ed è stato tradotto per alcune riviste estere. In virtù del suo percorso poetico e lavorativo viene da molti definito poeta operaio. Da settembre 2022 conduce il format SourPoetry.
La letteratura del mondo del lavoro, e in questo caso la poesia working class, non è sufficiente per accendere il fuoco del cambiamento ma è tuttavia necessaria per tenere alta la fiamma dell’attenzione. Qui Lorenzo, con grande occhio, cuore e competenza letteraria rende il giusto tributo a Matteo Rusconi, poeta che stimo da tempo.
Grazie a entrambi.
Ninuz
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