perìgeion

un atto di poesia

Magneti 4, di Annelisa Alleva

 

Jean Fautrier, Angles

 

di Annelisa Alleva

Magneti 4

Che cosa resta dei Beatles? Vedove ancora innamorate, canzoni, dischi, figli. Quattro voci indimenticate. Gli esercizi spirituali che George faceva per imparare a morire, e il suo rimpianto che John fosse stato ucciso così all’improvviso da non essersi potuto preparare a questo evento.

Un marocchino prende l’acqua dalla fontana romana della Navicella, inzuppandovi dentro una grande spugna ingrigita, per lavare una macchina dal guano degli storni. Quegli uccelli, che disegnano in cielo fantasie meravigliose inseguendosi e lasciandosi trasportare dalle correnti d’aria tutti insieme, soprattutto dalle parti della stazione, poi ti bombardano, quando meno te l’aspetti. Chi va alla messa domenicale, all’uscita vuole la macchina pulita.

«Dovete marzializzarvi, con il pericolo che c’è dei terroristi», ci suggerisce il maestro Marcello durante la lezione domenicale di tai-chi. «Se vi prendono un braccio, il braccio non c’è, perché scivola via, è un serpente», ci rassicura col suo sorriso bonario, mimando da solo, con le braccia, la parte del terrorista e quella della vittima.

Dopo calcoliamo in che giorno cadrà quest’anno Natale. È un venerdì, quindi la domenica dopo ci sarà lezione.

«Portate gli avanzi!», suggerisce allora Marcello con entusiasmo scherzoso.

Mi rifà continuamente il verso. Inscena teatrini, in cui recita la parte mia e sua: «Gi, non sbattere le cose», a cui segue la replica di lei, e poi ancora la mia. Un po’ aggredisce, un po’ fa la spiritosa. È insidiosa, come dicono le consigliere. Dice di aver interiorizzato quello che di lei non mi piace al punto da prevedere alla perfezione le mie reazioni. In sostanza mi vorrebbe azzittire prendendo in giro il mio tono più o meno dolcemente persecutorio. Neutralizzare inglobando l’avversario. Per separare le identità procede come diceva Darwin a proposito dell’evoluzione della specie: a salti.

Il segreto dell’eleganza è lo stesso della cucina: tanti ingredienti in piccola quantità.

Un gruppo di ragazzini aveva chiuso il rospo Gigetto in una scatola bianca per le scarpe, sulla quale aveva fatto dei buchi perché respirasse, e girava per le strade del paese sotto il Terminillo, chiedendo ai villeggianti se volevano vedere un rospo fumatore. I ragazzini aprivano la scatola e offrivano una sigaretta accesa a Gigetto, anzi, gliela avvicinava uno solo, mentre gli altri restavano a godersi la scena. Accostava la sigaretta alla bocca del rospo, dall’aspetto vizioso, e quello sembrava aspirare fumo, tanto che lo rigettava fuori. Si facevano pagare qualche lira, per lo spettacolo. Una mattina ritrovarono Gigetto accasciato su se stesso, nella scatola coi buchi che lo teneva prigioniero. Era scoppiato come la rana nella favola di Fedro. Sulla scatola bianca era rimasto scritto: Gigetto, il rospo fumatore.

Sempre al Terminillo, sul pilone di una seggiovia, che d’estate restava fuori uso, lo stesso gruppo di ragazzini si divertiva a pestare un mucchio di cavallette prima raccolte in un sacchetto. Le rovesciavano su un ripiano di ferro che sporgeva dal pilone e poi le colpivano con un sasso. La chiamavano marmellata di cavallette. Erano i primi anni Sessanta.

In casa girava una famiglia di gechi. Sotto il soffitto era stato fatto un grande soppalco nella parte centrale della casa, dove i gechi potevano nascondersi comodamente, e venir fuori quando uno meno se l’aspettava. Un giorno un piccolo geco si lasciò cadere dal soffitto proprio mentre uno dei ragazzini aveva appena finito di fare il bagno, e si stava asciugando con l’accappatoio. Aveva lasciato immediatamente cadere a terra l’accappatoio col geco che vi si era appena aggrappato sopra, ed era scappato nudo in giro per la casa. Si comportò come le lucertole, che si dileguano lasciandoti in mano la parte finale della coda, che si dimena.

Mi abbraccia e mi annusa: a volte mi trova profumata, a volte ho lo smog impresso sulla faccia, sui capelli, sul cappotto. Smoke and fog. La sera mi strucco.

La gatta è la cartina al tornasole dei nostri visitatori: osserviamo come loro reagiscono alla sua presenza, e come lei reagisce alla loro. Lei ama, riamata, Maurizio il restauratore, che di cognome si chiama Bonamici.

La zia dice che in realtà noi non conosciamo i nostri figli. È un’affermazione che mi stupisce, fatta da una donna di 90 anni con 5 figli, molti nipoti e bisnipoti. Deve aver combattuto con tutti i luoghi comuni e soprattutto con il proprio ruolo di madre. Nelle sue parole c’è umiltà, saggezza, intelligenza, e soprattutto spregiudicatezza: lo sguardo di una sconosciuta a sconosciuti. Non inchioda nessuno a un cliché prefabbricato una volta per sempre, neppure se stessa.

Papa Francesco saluta tutti i disabili uno per uno. Trattiene per un lungo istante la mano sulle loro teste. Saluta gli accompagnatori, tira su la coperta a un anziano in carrozzella, bacia i bambini. C’è un nano, un altro che si mostra felice, esaltato. Lui traccia una croce in grembo a tutti, benedicendoli quasi di nascosto, senza esibizione, e poi volge alle telecamere un sorriso frastornato. Dare amore è faticoso.

Al Mercato Esquilino, a un banco di abbigliamento, una donna: «Ho ssentito che ‘na vort’ar mese è gratuìto!» Non so a che cosa si riferisca.

All’angolo fra Giusti e Machiavelli: «N’c’ho ‘na lira, moré’

Lui fa più fatica a sentire, lei a farsi capire: anche qui s’instaura un rapporto di osmosi fra i due coniugi che negli anni diventano una persona sola.

«Rosso di pelo – piscia veleno».

Per aiutare il nonno Dodò a coricarsi, la nonna premeva la tibia contro lo spigolo scuro di noce, che circondava la rete e il materasso. Il nonno, paralizzato per metà, era pesante, e la tibia serviva a parare il tonfo con cui sprofondava sul letto, e a far da leva quando, al contrario, doveva tirarlo su, aiutata in entrambe le operazioni dalla tata. Questo avveniva due volte al giorno: per il riposo pomeridiano e per quello notturno. Altrimenti il nonno sedeva in poltrona in salotto, al tavolo dello scrittoio del suo studio, dove riordinava i francobolli, oppure, ancora, sedeva al tavolo da pranzo, dove mangiava, e poi, più tardi, nel pomeriggio, giocava a carte coi nipoti. Poggiava la mano destra paralizzata sul tavolo, tenendo aperte tre dita, e chiuse le altre due, come suggerisse una carta da giocare. Quando perdeva con loro, aveva uno scatto di rabbia. Più spesso faceva solitari. Si spostava lungo il corridoio trascinando i piedi a fatica, a piccoli passi, sostenuto a destra dalla moglie, a sinistra dalla tata. L’operazione faticosa di metterlo a letto, ripetuta ogni giorno da anni, aveva scavato un solco sotto il ginocchio destro della nonna e le aveva conferito un’andatura particolare, con le ginocchia appena piegate, e un impercettibile squilibrio, come se avanzasse più decisamente da una parte, e dall’altra arrancasse. La sua gamba forte e quella debole erano speculari alla gamba sana e a quella paralizzata del nonno. Nascondeva il solco, circondato dall’alone di un livido perenne, sotto le calze velate di nero, che portava estate e inverno.

Marco Sisti era un tipo strano, che alle medie stava in classe mia. Si moveva a scatti, ansioso, esagitato, e aveva una vocetta acuta che lo rendeva ancora più molesto. Un giorno, all’uscita di scuola, mi fece un dispetto che non ricordo, e io lo rincorsi. Lui scattò via veloce ed ebbe la prontezza di lasciar cadere la cartella di mano, che mi si parò davanti ai piedi all’improvviso sul marciapiedi facendomi cadere. Mio padre a casa mi disinfettò nel suo studio i due palmi graffiati delle mani e fasciò accuratamente il ginocchio ferito con la garza. Coi modi tranquilli che aveva, mi dimostrò tutta la sua disapprovazione per il fatto che avessi inseguito il mio compagno di classe, mettendomi al suo stesso livello. Quasi avessi avuto nelle ferite una giusta punizione al mio comportamento indegno. Sisti fu bocciato quell’anno, o il seguente. Oggi si darebbe un nome ai suoi sintomi. Allora no, non se ne sapeva molto. Si bocciava e basta.

Col tempo s’impara a travasare: l’acqua nel ferro da stiro, l’olio nell’oliera.

Nataša, passeggiando lungo il Volga, mi diceva che avrebbe desiderato tornare a Kinešma, dove eravamo. A un certo punto siamo arrivate in centro e ho scorto, nella vetrina di una merceria d’altri tempi, grandi cerchi di legno entro cui fermare e tendere il ricamo. Di fronte al negozio l’insegna di un cinema: Kino. Ho capito Nataša, il suo senso di nostalgia, pur nel presente, legato a Kinešma. L’anno dopo abbiamo rievocato insieme quella passeggiata.

Uso tutto l’anno l’essenza di vari fiori, raccolta in boccette, che trovo nei negozi di antichi monasteri in Russia, a Pskov, per esempio, o a Kostromà: mughetto, giglio, cipresso, viola, gelsomino. I monaci la estraggono in Grecia e la mandano, per via ortodossa, in Russia. Con i loro tappi tondi colorati simili alle cipolle dei loro luoghi di origine, se ne stanno sopra la mensola del lavandino in bagno. Spostandole, a volte cadono senza rompersi. Spigolose, di vetro spesso, rimbalzano più volte con violenza, producendo un rumore acuto, e colpiscono la porcellana del lavandino, che si scalfisce. Anche il carattere cirillico della loro essenza è affilato.

Il pope in Russia spesso è cattivo, minaccioso, manca di benevolenza. E anche la sua perpetua, magari moglie, non lo è. Tanja Nešumova mi ha raccontato che da giovane, in epoca sovietica, una l’aveva insultata mentre scopava sulla strada, perché portava i pantaloni. Ricordava ancora le sue parole. In chiesa per le donne è obbligatorio indossare una gonna e coprire la testa con un fazzoletto. In due mucchi ce n’è per tutte.

All’uscita delle case-museo, per esempio a Michajlovskoe, si cammina attraverso un corridoio di donne, che vendono berretti di lana, sciarpe, e marmellate fatte in casa, tutte rosse: di fragola, ribes, lampone. Se un barattolo costa tanto perché grande, al banco accanto ce n’è un altro meno caro semplicemente perché più piccolo. La prima venditrice ci resta male.

La Cattedrale di Rjazan’ sorge su un terrapieno ai margini della città, sopra l’Oka. Che lavoro devono aver fatto gli uomini, per sollevare tanti anni fa quell’immenso terrapieno! La parete di fondo, al suo interno, è interamente intarsiata di legno. Lo slavista Michel Aucouturier si avvicina a un piccolo gruppo di donne, che stanno provando in coro i canti per la festa del Redentore. A questo è dedicata la Cattedrale e la sua festa ricorre domani. Le donne siedono in un angolo appartato, e una di loro dirige le altre. I mattoncini rossi di cui è fatta la cattedrale vengono dalla terra e dal fuoco, l’acqua del fiume ha fatto da colla per tenerli insieme con la calce, gli intarsi provengono dalle querce dei boschi, e il canto delle donne dal bronzo delle campane.

A Kaluga qualcuno di noi è invitato per un’intervista a una televisione locale. La giovane truccatrice mi cotona leggermente i capelli, pettinandomi come non ha mai fatto nessuno. Si vede che le piace il suo mestiere.

«Te capita tutto a tte!», uno al cellulare su Via Celimontana, con accento napoletano.

Ero tornata a Jasnaja i primi di settembre da Mosca, per un festival di teatro in giardino. La sera faceva già un freddo cane. Avevo un giorno libero per me. M’inoltrai dentro la proprietà, svoltando a destra dopo la tomba di Tolstoj, un semplice tumulo di terra dove lo scrittore è seppellito insieme con il suo cane. Ha scelto quel punto, perché lì veniva a giocare con suo fratello da bambino: cercavano insieme il bastoncino verde della felicità, zelenaja paločka, che avrebbe esaudito tutti i loro desideri. Lasciai cadere a metà del mio cammino un bastoncino verde per ritrovare, più tardi, la strada del ritorno.

Decidemmo di fare il bagno nel Don, largo e selvaggio, che scorre fra due alti dirupi di roccia e sabbia. Dio, com’era forte la corrente! Avevo già realizzato che non ce l’avrei mai fatta a tornare a riva, il fiume mi avrebbe trascinato inevitabilmente via con sé, quando per fortuna mi resi conto che l’acqua era bassa. Toccavo.

Nella cittadina di Vešenskaja na Donù i bambini andavano a farsi fotografare il primo giorno di scuola, con la divisa, davanti al monumento di Gagarin. Qualche anno dopo, sempre il 1 settembre, ero a Michajlovskoe, vicino alla casa-museo nella proprietà della famiglia di Puškin. Mi persi per quei viottoli tutti uguali, in mezzo ai quali erano siepi alte e impenetrabili. Prima della gita che stavamo per fare tutti insieme avevo desiderato rivedere per l’ultima volta la casa di Puškin, ma non c’era nessuno a cui chiedere informazioni per tornare indietro. Avevo anche i tacchi, perché mi ero preparata per leggere, più tardi, qualche poesia davanti alla sua tomba. Mi metteva paura quella bellissima giornata di sole desolata. Erano tutti via, impegnati nel primo giorno di scuola dei figli, o dei nipoti. Sbucai, dopo parecchio cammino, su un laghetto con una barchetta sopra e un pescatore che pescava con la lenza. Accanto al laghetto un posto di guardia, dove ho cercato di descrivere la casa in cui eravamo ospitati, che cosa si vedeva nei pressi, affinché, identificandola, potessero risalire al responsabile e contattarlo. Laghetto col pescatore e garitta erano due elementi perfettamente consoni all’opera fiabesca di Puškin.

Eravamo su una spiaggetta lungo l’Oka, al tramonto. Nella spiaggia accanto arriva un gruppo di ragazzi ubriachi. La nostra amica spagnola più giovane, Marta, scoppia a ridere in modo esuberante: con Nataša le diciamo che non deve farlo, è rischioso. I ragazzi si sporgono col gommone a guardarci, noi usciamo fuori dall’acqua.

«Quando sono ubriachi ti assalgono; dopo piangono, ma ormai è tardi», Nataša, che ne ha sentite tante.

Assistiamo a un matrimonio ortodosso nel villaggio di Konstantinovo, nella stessa chiesa in cui fu battezzato Esenin. Lei porta un vestito celeste e una lunga treccia scura. Hanno solo una parente come testimone, che sembra essere la madre di lei. Gli sposi disegnano un piccolo corteo circolare al seguito del pope: lo sposo si attacca alla sua mitra, svasata all’altezza del gomito; la sposa segue il fidanzato, appoggiandosi al braccio di lui. Una cerimonia privata.

Quando usciamo commento: «Erano molto ben proporzionati».

«Totalmente vero», replica un’anziana, che evidentemente aveva pensato la stessa cosa.

Quando Nataša è nervosa il marito le suggerisce: «Vatti a mangiare qualcosa!»

 

 

Annelisa Alleva è nata e vive a Roma. Ha pubblicato diverse raccolte poetiche, di cui le ultime sono La casa rotta (2010), Caratteri (2018) e Dita di vetro/Glass fingers (2023), col testo a fronte in inglese. È tradotta in russo, inglese e spagnolo. Ha pubblicato il volume di saggi e ricordi Lo spettacolo della memoria (2013).Fra le altre traduzioni: di Puškin tutta la prosa, e Poesie d’amore e epigrammi; di Tolstoj Anna Karenina, l’antologia Poeti russi oggi e Vivo sul vivo di Marina Cvetaeva.

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Questa voce è stata pubblicata il 27/02/2024 da in ospiti.