rubrica a cura di ‘Z
da Erotica
Anche le parole
vene sono
dentro di esse
sangue scorre
quando le parole si uniscono
la pelle della carta
s’accende di rosso
come
nell’ora dell’amore
la pelle dell’uomo
e della donna.
***
Gli occhi chiusi
tutta nuda
sul tappeto rosso
attende
che lui si tolga le scarpe
le calze
che le impasti i seni
forte forte
coi suoi larghi piedi.
***
La poesia
ah la poesia – diceva –
un coito infinito
segni d’interpunzione niente
nessun punto e a capo
profumo della terra
letame e fiore di limone
e sperma
la zappa e il badile
sopra il marmo
doppio lavoro
altro non dire
l’amore uno.
***
Con correlazioni, con similitudini
ti ricreo frammentariamente. Non mi completo.
***
Due mesi senza incontrarci.
Un secolo
e nove secondi.
***
Sei tornata ridendo dal mercato, carica
di pane, frutta e un’infinità di fieri. Sui tuoi capelli, vedo,
ha passato le dita il vento. Non lo amo il vento;
te lo ripeto. E poi, che te ne fai di tanti fiori? Quali fra tutti,
tra l’altro, ti regalò il fiorista? E magari nello specchio
del suo negozio è rimasta la tua immagine illuminata di lato
con una macchia blu sul mento. Non li amo i fiori, Sul tuo seno
un fiore grande quanto un giorno intero. Siedi dunque di fronte a me;
voglio guardare tutto solo come pieghi il ginocchio, e stai lì a fumare
finché cada la notte misteriosa e s’alzi magnetica sul nostro letto
una luna popolare da sabato sera, col violino, il salterio con un clarinetto.
***
Le poesie che ho vissuto tacendo sul tuo corpo
mi chiederanno la loro voce un giorno, quando andrai.
Ma io non avrò più voce per ridirle allora. Perché tu eri abituata
a camminare scalza per le stanze, e poi ti rannicchiavi su letto,
gomitolo di piume, seta e fiamma selvaggia. Incrociavi le
mani
sui ginocchi, mettendo in mostra provocante
i piedi rosa impolverati. Devi ricordarmi così- dicevi; ricordarmi cosi coi
piedi sporchi; coi capelli
che mi coprono gli occhi – perché ti vedo più profonda mente così. Dunque,
come potrò più avere voce. La Poesia non ha mai camminato cosi
sotto i bianchissimi meli in fiore di nessun paradiso.
***
Non voglio che tu salga scale di marmo d’ospedali. Non voglio
che aspetti davanti alla porta socchiusa d’una sala operatoria;
– carni straziate, sangue – non quello dei tuoi 27 giorni;
ma anche quello mi allontana, mi ostacola, mi attira. Il sangue
è per scorrere non visto nelle vene; per udirlo di notte cuore a cuore, come una
musica dal piano di sotto, dove
un’altra coppia
prepara con la musica un amore più profondo. Non voglio tu vada a zonzo
per questi corridoi che sanno
di idroformio, di canfora e di morte. Non voglio che tu faccia
l’infermiera a nessuno, neanche a me. Non voglio che tu curi
gli storpi, le statue mutilate e una tortora
colpita all’ala destra dai pallini. Non voglio che il tuo sorriso
cada sulla nudità degli uccisi, anche se sono miei compagni.
A te si addice
l’immobilità nella giovinezza, o con pochi gesti
governare le onde davanti alletto, o tutt’al più pettinarmi i capelli bagnati nei
tuoi bei modi allegri, o ancora
portare al mattino il gran vassoio col tè, come portassi un’arpa, senza
intenzione di suonare, giacché l’arpa
suona da sola appena alzo gli occhi su te. Perché, sai,
su quest’ardente pietra dell’anello che mi hai donato splende
nel corpo umano, sollevando con sé
creature mortali e cose – anatre selvatiche, bufali, finestre,
i tuoi sandali estivi, un tuo braccialetto, un riccio di m re, due colombi,
nel recinto aperto di un’inspiegabile, non richiesta immortalità.
***
Tutti i corpi che ho toccato, che ho visto, che ho preso,
che ho sognato, tutti
addensati nel tuo corpo. O, tu carnale Diotima
nel gran simposio dei greci. Se ne sono andati i flautisti,
se ne sono andati filosofi e poeti. I begli efebi dormono già
lontano, nei dormitori della luna. Tu sei sola
nella mia preghiera innalzata. Un sandalo bianco
dai lunghi lacci bianchi è legato alla gamba della sedia.
Sei l’oblio assoluto;
sei il ricordo assoluto. Sei la non incrinata fragilità. Fa giorno.
Fichidindia carnosi scagliati dalle rocce. Un sole rosa
immobile sul mare di Monemvasià. La nostra duplice ombra
si dissolve alla luce sul pavimento di marmo pieno di sigarette calpestate,
coi mazzetti di gelsomini infilati negli aghi di pino. O, carnale Diotima,
tu che mi hai partorito e che ho partorito, è ora
che partoriamo azioni e poesie, che usciamo nel mondo.
Davvero, non scordare
quando vai al mercato di comprar mele in abbondanza, non quelle d’oro delle
Esperidi, ma quelle grosse e rosse che guando affondi
nella polpa croccante i tuoi splendidi denti resta impresso, come l’eternità sui
libri, pieno di vita il tuo sorriso.
***
Voglio descrivere il tuo corpo. Il tuo corpo è infinito. Il tuo corpo
è un tenue petalo di rosa in un bicchiere d’acqua chiara.
Il tuo corpo
un bosco selvaggio con quaranta spaccalegna neri. Il tuo corpo
profonde umide valli prima che sorga il sole. Il tuo corpo due notti con campanili, stelle filanti e treni deragliati. Il tuo corpo hi .
un bar fioco con marinai ubriachi e mercanti di tabacchi: schiocchi di dita,
bicchieri rotti, bestemmie, sputi. Il tuo corpo
una flotta intera – sommergibili, corazzate, cannoniere;
frastuono
d’ancore che salpano; l’acqua scorre sul ponte; un mozzo
si tuffa in mare dall’albero. Il tuo corpo
silenzio di molte voci lacerato da cinque coltelli, tre baionette e una spada. Il tuo corpo
un lago trasparente, – sul fondo si vede la bianca città sommersa. Il tuo corpo
un’enorme, indomita piovra dentro la boccia della luna, coi tentacoli rossi di sangue
sui viali illuminati dove nel pomeriggio
passò lento il corteo funebre dell’ultimo imperatore. Molti fiori calpestati
restano sull’asfalto bagnati di benzina. Il tuo corpo
un antico bordello in via del Borgo, le puttane vecchie e truccate
con grassi rossetti da due soldi; portano lunghe ciglia finte;
ce n’è anche una giovane alle prime armi, – prova piacere coi clienti,
lascia i soldi sul comodino, si scorda di contarli. Il tuo corpo
è una ragazzina rosa; se ne sta sotto il melo e mangia
una fetta di pane fresco e un pomodoro rosso salato; ogni tanto
s’infila un fiore di melo tra i seni. Il tuo corpo
una cicala nell’orecchio del vendemmiatore, – getta un’ombra viola sul suo collo bruno
e canta da sola quante non ne può dire tutta l’uva insieme. Il tuo corpo
una grande aia panoramica in cima alla collina –
undici cavalli bianchì vi trebbiano il grano della Scrittura; le paglie d’oro
ti appuntano piccoli specchi tra i capelli, e splendono i tre fiumi
dove chinano il capo grandi vacche nere con stemmi adamantini
a bere l’acqua e piangere. Il tuo corpo è infinito. Indescrivibile il tuo corpo.
E lo voglio descrivere, stringerlo più forte il tuo corpo, contenerlo,
e che mi
tenga.
da Erotica, Crocetti Editore, 2002, Milano
Sempre bello leggere Ritsos
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L’ha ribloggato su evangelia polymou.
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Purissimo eros in poesia. Grazie, Nino Iacovella, di aver riproposto testi di Ritsos che pure già conoscevo, ma che risuonano ogni volta di note nuove.
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Il tuo corpo
un antico bordello in via del Borgo, le puttane vecchie e truccate
con grassi rossetti da due soldi; portano lunghe ciglia finte;
ce n’è anche una giovane alle prime armi, – prova piacere coi clienti,
lascia i soldi sul comodino, si scorda di contarli. Il tuo corpo
è una ragazzina rosa…. Proprio poesia di strada, tornando sul discorso….è questa!
Annasilvia
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