perìgeion

un atto di poesia

Fischi per fiaschi, di Giorgio Mascitelli

 

Di Biagio Cepollaro

Cosa accade nelle relazioni umane e nella relazione con sé stessi in una società che si pretende post-ideologica, inclusiva, democratica, tecnologica? Cosa può fare la scrittura letteraria se si ostina a configurarsi come pensiero critico, come espressione di una funzione intellettuale non ridotta a anestetizzante intrattenimento? Come si possono giocare come attuali risorse, tra gli altri, a tale scopo l’indisciplinato Bianciardi, il risentito Gadda, l’informato Volponi, il divertito Rabelais, l’archetipo kafkiano?

Una microfisica del potere di tipo aziendale e condominiale congiura in questo romanzo breve a incarnare la reattiva disubbidienza in un sintomo tanto banale quanto prodromico a un vero e proprio sabotaggio…La compulsione ostinata, e per gli altri fastidiosa, del fischiettare. Soprattutto se ad essere fischiettato è l’inno aziendale che ha ormai sostituito l’inno nazionale nel collasso privatistico e privatizzato dello Stato.

A leggere questo lungo racconto viene da sorridere. E si sorride perché si scopre che qualcosa di considerato neutro, ovvio, in fondo innocuo, in realtà non lo è. Di cosa si sorride allora? Del nostro affidarci alla presunta naturalezza dei giorni, della nostra superficialità, della nostra somiglianza con il protagonista che costituisce l’estremizzazione delle nostre ordinarie patologie. Viene anche citato Fantozzi, capro espiatorio della condizione impiegatizia esplorata da Villaggio con acume e comicità. Così come viene citato Pirandello, d’altra parte, per la questione dei rapporti difficili tra personaggio e suo autore.

Nella società che si presume post-ideologica si è persa anche la memoria del conflitto tra le ideologie, la supremazia di quella vincente ha operato una damnatio memoriae. Ai tempi di Bianciardi una fantasia anarchica di rivolta risuonava nella cultura coeva e poteva animare e motivare almeno inizialmente il protagonista de La vita agra, era ancora possibile quella fantasia dinamitarda, di vendetta per l’ingiustizia subita. Ai tempi di Gadda la rabbia e il risentimento per la stupidità e l’insipienza della classe dirigente  potevano ancora scaricarsi sul pastiche, sul lavoro letterario nella vitalità delle tradizioni anche dialettali; ai tempi di Volponi era ancora possibile una fiducia nella capacità civilizzatrice dell’industria e della tecnologia, era ancora possibile tenere insieme il sogno illuminista e la pulsione vitalista e anarchica, almeno fino alla crisi del “Capitale e delle sue mosche cocchiere” della finanza; ai tempi del Balestrini di Vogliamo tutto si poteva ancora registrare letteralmente le voci collettive della protesta e farsene applaudito latore d’avanguardia, letteraria e politica insieme.

Nella società nostra della deculturazione, de-emancipata, de-storicizzata, precarizzata, il grande pensiero critico non può che regredire a fischio sul piano del linguaggio preverbale e a luddismo sul piano dello scontro fisico, sterile e isterico del casseur.

I dispositivi aziendali contemporanei agiscono soprattutto sul piano del linguaggio ed è allora sul piano del linguaggio letterario che la scrittura è chiamata a rispondere. E la risposta di Mascitelli non è una tesi ma una scrittura.

Il fischiettare compulsivo è Disubbidienza incarnata, protesta quasi muta ma già sospetta, luddismo minimale: distrugge il silenzio che accompagna l’ubbidienza e i suoi atti quotidiani. Toglie la pace presunta a chi è intorno. Non confligge, infastidisce come associando al Dominio un piccolo sabotaggio. Dominio e sabotaggio, appunto, ma questa volta in parodia e in sedicesimo.

Dato che la sofferenza è prodotta anche dalla biopolitica (un tempo si sarebbe detto dalla colonizzazione dell’immaginario) dalla costante sorveglianza sui corpi e sugli organismi, dai regimi dei discorsi ammessi e da quelli interdetti, sono i corpi, oggi, sono i suoi sintomi, più precisamente, ad alludere alla politica. Nella società che si presume post-ideologica l’ideologia vincente dalla fine degli anni ’70 del Novecento nel cosiddetto Occidente si è fatta ormai carne, natura, legge di gravità ma soprattutto si è fatta invisibile, motore cosmico, invisibile perché introiettato.

Il protagonista è un informatico e crede, ha bisogno di credere che in quanto impiegato di concetto non possa essere licenziato con la stessa facilità di un operaio. Ma intuisce che l’umiliazione è il fondamento della flessibilità del lavoro. Il capitalismo postfordista che diventa capitalismo cognitivo non si riduce ad etichetta ma è dolore concreto, fisico di persone vere, intrappolate in questo regime di produzione. E non solo di singoli ma anche di famiglie intere coinvolte in questi processi depressivi, come magistralmente illustrato dal cinema di Ken Loach.

A pag. 30: “Tutto in questo mondo si può comprare, ma l’umiliazione deve essere gratuita. (…) Fino a poco tempo fa solo acqua, aria e umiliazione erano gratis. Adesso stanno cominciando a far pagare anche l’acqua e restano soltanto aria e umiliazione. Ciò significa che l’umiliazione è un bene primario necessario alla vita (…) perché solo chi è umiliato esegue le proprie mansioni con la dovuta flessibilità, ma forse si sono scordati che è anche l’unico che agogna la vera dignità”. Una sorta di dialettica hegeliana del servo-padrone minaccia una possibile, in realtà impossibile, rivolta, un possibile impossibile capovolgimento. Ma la dignità è lontana e la dialettica hegeliana è viziata da ottimismo idealistico. Come, d’altra parte, quella marxiana ad essa fin troppo debitrice.

La scrittura di questo lungo racconto o romanzo breve è antinaturalistica non perché astratta, non perché insiste sullo stridere del contrasto tra registro alto e scena quotidiana, tra alto e basso ma al contrario perché si oppone ironicamente alla naturalizzazione dei processi sociali che l’ideologia dominante propone con tutti i mezzi e i media a disposizione. E lo fa con i mezzi della letteratura non della filosofia: non sono concetti quelli che si muovono,  ma si intuiscono, e talvolta si vedono, proprio i corpi e le relative emozioni, passioni tristi, fallimenti, lacerazioni esistenziali, scene da un matrimonio, vite indifese e maciullate dalla ordinaria e sociale macelleria dell’azienda.

La scrittura antinaturalistica dovrà sfidare l’Ordine del Discorso, la fantasia al potere, la retorica anglofona del comando, la liturgia ossessiva ma anche spesso occulta della produzione, la sistematica mistificazione della realtà povera e nuda delle cose.

La scrittura spia i segni, le fratture, i punti di rottura della narrazione unica propinata dai media: interrompe il presunto carattere naturale di queste realtà. L’interruzione del flusso diventa scena, dettaglio narrato, dialogo, descrizione di un modo di vestire: i personaggi sono sintomi, sintomatici, il male sociale somatizzato diventa tic nervoso.

La disubbidienza non è ancora una rivolta ma già non è più collaborazionismo. Investe tutti i campi, anche i normali rapporti tra Autore e Narratore a sabotare la presunta onniscienza di chi costruisce la finzione, facendo cortocircuitare talvolta la prima e la terza persona. L’onniscienza dell’autore è insidiata, l’adeguatezza del Narratore è minacciata. C’è una sproporzione tra ciò che sperimentiamo quotidianamente e la nostra capacità di analisi, è sempre più difficile orientarsi in un mondo in cui anche gli affetti dipendono dal rating. E’ un mondo in cui incontriamo misteriosi giudici kafkiani invasivi e nascosti: la statistica aggiorna la burocrazia kafkiana.

Il lettore è invitato a seguire ad una certa distanza il protagonista che sin dall’inizio si propone come anti-eroe. La distanza è lo spazio del comico e dell’ironia, ma anche della riflessione a cui alludono veloci notazioni e spunti. La distanza guadagnata dal lettore è però apparente, se alla fine ci si riconosce se non nello “pseudoribelle” almeno nel mondo che vive, nel suo atomistico contesto.

Il fischiettante è dentro un mondo che frana. E a franare è anche il ceto medio minacciato di proletarizzazione e colpito proprio nel suo punto debole che è la dignità, la possibilità del decoro. E fischia mentre lui stesso sta franando. La sua adeguatezza alle situazioni è sempre in questione. Ed è proprio questa precarietà esistenziale, ontologica, che rende ancora più difficile il lavoro. Diventa veramente difficile ritrovare nel mondo del lavoro e della comunicazione sociale l’origine del malessere che può venire invece sperimentato come personale inadeguatezza con relativo aggravio di senso di colpa. È ciò che accade spesso. È ciò che ha fatto schizzare in alto la quantità di psicofarmaci assunti dagli italiani.

Alla ricerca delle tombe dei suoi cari il protagonista non riesce a trovare il luogo perdendosi nell’intrico di viali del cimitero. Questo fallimento allegorizza l’impossibilità di riconnettersi alle radici novecentesche biologiche e culturali, non solo alla propria genealogia, alla propria continuità. Non si sa più da dove si viene e non si sa più dove si va, l’eterno presente del postmoderno è in realtà l’eterna mancanza a sé stessi. Lo sradicamento è spaesamento che chiede un sussulto rabbioso prima di una finale rassegnazione, prima della totale e conclusiva de-umanizzazione. Restano a resistere i frammenti di “simpatia” umana, di capacità empatica, di umanità residua ancorché ferita, patologica, inconcludente. Quella simpatia che è già presente nei primati superiori ma che il neoliberismo tende ideologicamente a negare negli uomini. Ma è anche proprio questa simpatia per gli altri umani che resiste ad alimentare la finzione narrativa, a motivare la critica della cultura, a rendere ostinati questi minima moralia del Duemila, a dare un senso alla letteratura, a liberarla dal collaborazionismo dell’intrattenimento.

Fischi per fiaschi di Giorgio Mascitelli, Derive e approdi, 2024

 

 

 

Giorgio Mascitelli ha pubblicato i romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo (2017), oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul visocon disegni di Lorenzo Sartori, È stato redattore di Alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, attualmente del blog letterario Nazioneindiana ed è curatore di Finisterre, sezione letteraria della rivista Machina.

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