a cura di Giorgio Galli
Miklós Radnóti nacque a Budapest il 5 maggio 1909 e morì fucilato ad Abda il 10 novembre 1944. Studiò filosofia all’università di Szeged, ma è come poeta che mosse i suoi primi passi nel mondo intellettuale ungherese. Dapprima fu poeta lirico e piuttosto tradizionale, poi trovò una sua voce propria sotto l’influsso del surrealismo e della poesia popolare. Fresche, eccitate, popolareggianti, con una vena di idillio e una di ribellione sono le sue prime raccolte. Vivide le sue traduzioni dal francese. Non poté esercitare la professione di insegnante perché era ebreo. Fu deportato in vari campi di concentramento in Ungheria e in Serbia; infine fucilato. Un suo quaderno di poesie fu ritrovato in una fossa comune ad Abda. Esiste anche una registrazione della sua voce.
Un libro ormai introvabile, Ero fiore sono diventato radice (Fahrenheit 451, 1995, collana I taschinabili) traccia per il lettore italiano il suo breve itinerario poetico, dai versi giovanili al dissepolto quaderno del Lager. E’ difficile raccontare la sorpresa e lo sbigottimento provati quando ho visto dischiudersi sotto i miei occhi il fiore fresco dei versi giovanili: poesie fervide e sensuali, impretuose come il sangue che scorre nelle giovani vene del poeta. La morte ha finito per accomunare Radnóti a tanti poeti ungheresi morti in maniera tragica, chi ucciso in battaglia e chi addirittura sbranato dai porci. Ma la tragedia risuona più grande se la relazioniamo alla vitalità incredibile di questo giovane poeta.
La miniantologia, per ragioni di spazio, non ospita i testi originali, per cui dobbiamo fidarci della traduzione di Marinka Dallos e Gianni Toti.
La morte prematura retrocede nel tempo figure che altrimenti ci sarebbero più vicine. Alan Turing e Guido Morselli, nati nel 1912, appartengono nel nostro immaginario a mondi diversi dal nostro, eppure erano coetanei di mio nonno, scomparso a 97 anni nel 2009. Indro Montanelli, coetaneo di Radnóti, è morto nel 2001. Una considerazione lapalissiana, che però riaccende le luci sopra una smisurata tragedia.
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Saluto pagano
Guarda: sulla testa imbiancata dei nostri alberi
pizzicati dalla brina siede ora il vento e
tra le torri delle oscillanti campane ecco
che risuonano le pie preghiere…
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Gocciolante di bava, una quieta giovenca
cammina ancora dietro il nostro carro, ma
non erra più con parole che volano
intorno alla nostra bocca pallida un amen.
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Ci siamo purificati: tra le torri
nel vento che riposa sugli alberi -e adesso
tra gli alberi brizzolati- noi, pezzati di baci,
con occhi pagani abbiamo fatto primavera.
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Guarda i nostri corpi: insieme con le gemme germoglia
l’amata carne e dopo i nostri baci
gettati nel sole con gola felice
così, empiamente, noi gettiamo grida…
(11 gennaio 1930)
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Poesia di primavera
Gli alberi ribellano fiori scarlatti,
la notte, e allegri vagabondi abbracciano donne
sotto i cespugli sotto i rami scricchiolanti;
solo la ragazza strilla, e graffia,
per la rivoluzione primaverile del suo corpo, come
un uccello appena fecondato se fugge schioccando le ali
davanti al maschio e sulla sua gola arruffata
fiorisce fischiando il colore dei desideri.
(27 marzo 1930)
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Ritratto
Ho ventidue anni. Doveva avere
questo aspetto in autunno anche Cristo
a questa età; ancora non portava
la barba, era biondo e le ragazze
lo sognavano, la notte.
(11 ottobre 1930)
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Già si fa rossa di sole la bacca autunnale
Una bionda pagana ragazza è la mia amante, in me
unicamente crede e se scorge un prete,
terrorizzata sussurra: c’è solo erba c’è solo albero
e sole e luna e stelle e animali ci sono
sui prati variopinti. E corre via. E la polvere
si leva felice sulle sue orme.
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Eppure lassù nei giardini
anche la croce vede i suoi baci e
allegro le si inchina il fiordaliso,
perché sempre ma inutilmente l’ammira
quell’innamorato sacro barbuto.
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Ha diciotto anni e quando non è con me
in silenzio cammina, come tra rive boscose
a mezzogiorno l’acqua estiva, e
culla dentro di sé lo scintillante pensiero
che non siamo mai sazi di baci e mai tristi.
Già si fa rossa di sole la bacca autunnale.
(1 settembre 1930)
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Diario d’uomo
Sulla cima dei miei giorni siedo, e ne oscillano
i miei piedi, una nuvola di neve
mi leva il cappello, e le mie parole
di lassù, tra penne di gallo
alzando la polvere, marciano.
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Dicono che albeggia al fondo dei fossati,
e sotto le erbe spiano
luccicanti grilli, e il letto delle pozzanghere
bevute dal sole si entusiasma
dietro i passi risuonanti.
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Forse verrà la tempesta perché
l’acqua increspata si fa liscia portando i pesci,
e il silenzio allarga le gambe
sopra la testa e con rumori di battaglia
si prepara a menare le mani.
(1931)
Poesia di primavera è la sintesi del tuo articolo. Meravigliosa.
Grazie
Nino
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