perìgeion

un atto di poesia

Modi di sorvolare

cupid

di Cupido

È un dato di fatto che nei libri che mi piacciono io leggo me stesso, e che per questo preferirei non parlarne (da introverso camuffato quale sono). Fly mode di Bernardo Pacini (Amos Edizioni, 2020) è uno di quei libri in cui vorrei abitare per una stagione. Vorrei autoptizzarlo, disossarlo, e poi provare a riprenderlo in mano da ubriaco, tentando di recuperare una verginità di lettore che ho perso.  Vorrei provare a trascriverlo, come un adepto, o riscriverlo per confutazione, come un apostata. L’unica cosa che non vorrei fare è scriverne una recensione. Finirei per buttar giù una di quelle risposte preparate che impariamo a dare a i colloqui di lavoro a domande come “si descriva in cinque aggettivi” o “mi dica come si vede fra cinque anni”. Invece che del libro parlerei di me, e nel più trito dei modi. C’è anche un altro motivo di disagio: la consapevolezza che non ho tutto il tempo che vorrei per ambientarmi fra le pagine; che la mia capacità di fermarmi e prendere dimora in un testo è ormai cosa passata; altri libri premono, e passati i quaranta non c’è più tempo per farli aspettare, è solo una corsa a rompicollo. Di questo soffro, per il libro e per me stesso, ma non ancora trovato una leva del freno a cui aggrapparmi.

Provo almeno a districarmi. I dettagli sullo spunto e l’architettura dell’opera si trovano facilmente in rete e non vale ripeterli. A mio parere, i punti di forza della poesia di Pacini, espressi nei suoi lavori precedenti ma anche e soprattutto in quest’ultimo, sono due: il plurilinguismo pirotecnico,  che mette a cuocere nello stesso calderone la bazza e l’HD, gli antomata e l’Erlkönig, il coccobello e l’X-sundowning e il s’inlatebra, perché tale e tanta è la lingua che è un peccato non usarla (ma con l’autoironia che salva dal mero virtuosismo, dal “guarda mamma, senza mani”); e la curiosità metodica nei confronti del reale in tutti i suoi aspetti, scevra di qualsiasi pregiudizio su cosa sia “poetico” e cosa non lo sia. (A ben guardare, il secondo punto funziona come giustificazione esistenziale del primo). Innestando l’io poetico in una “persona” diversa da sé – il drone, il quadricottero radiocomandato, che prende il posto dei Pokémon della Drammatica evoluzionedi cinque anni fa – Pacini trova una voce tanto più personale quanto meno è avvitata su sé stessa: tutto è visto dall’esterno, da una certa distanza, eppure con una partecipazione a tratti lancinante. Si badi bene: Pokémon e droni non sono placeholders per altrettante sottoculture, e tanto meno exempla (per sineddoche) di uno stereotipico “contemporaneo” liquidato con sufficienza (“chissà dove andremo a finire di questo passo signora mia”) – sono invece personaggi pienamente realizzati, nodi complicati di emozioni, aspirazioni, frustrazioni, che solo in parte riflettono quelle dell’autore. È un approccio che come lettore è piacevole ritrovare, affinato negli anni e reso più libero in quest’ultimo lavoro dall’assenza di uno stretto vincolo formale (mentre la Drammatica evoluzione era tutta composta su schemi metrici tradizionali). I modelli altissimi rimangono (Montale, ovviamente, e la lunghissima tradizione che filtra ad esempio attraverso i Mottetti), ed è apprezzabile che Pacini, poeta non più di primissimo pelo, continui a confrontarsi con essi senza timore. Se tutto questo non basta a invogliare alla lettura, si aggiunga il gusto di non sapere mai esattamente dove il libro andrà a parare, di dover spesso saltare indietro o avanti nella lettura per chiarire dettagli che di primo acchito rimangono oscuri.

E basta, a questo punto devo fermarmi. Di qui in poi tutto si fa molto personale e privato, in un modo che esula dall’analisi strettamente poetica. O forse no. Facciamo così: lascerò qualche appunto, qualche segnalino, aggrappandomi a passaggi selezionati o addirittura singole parole, come note in calce a un testo assente (che è d’uopo procurarsi) – come Pollicino per un me stesso del futuro che voglia trovare la strada fra i molti sentieri potenziali. Il lettore più avveduto farà bene a passare oltre, ai testi che ho selezionato e posto in calce. Vediamo se una silenziosa lettura parallela può riuscire laddove la dissezione parascientifica fallisce.

orso blu (p. 15): letterale e gigantesco. Un orso blu che guarda dentro. Il bisogno di vedere, di sapere, è goffo e ingombrante e fa perfino tenerezza (ma potrebbe sfracellarti con una zampata).

Il drone utilizzato per scopi umanitari lancia vaccini nei villaggi del Ruanda – la missione demandata crea distanza, non consola, non redime, umana com’è solo per difetto di fabbrica [interferenza] (p.20): redenzione è concetto cristiano, l’aspetto che fa del cristianesimo qualcosa di più di un semplice umanitarismo. Non importa quanto menti a te stesso: il bisogno di redenzione permane, e non puoi fartene carico da solo (né demandarlo a un insetto meccanico).

assiemato al | glomere di un bomber dei Lakers: dove il novanta per cento dei poeti avrebbe scritto “stretto a scaldarsi nel giubbotto | come in un alveare”, e sarebbe stata buona poesia – ma proprio perché tale, ti avrebbe fatto glissare sull’immagine senza lasciartela davvero carpire. Quando l’esibizionismo tecnico diventa strumento per spingere il lettore oltre le tecnica (cfr. D. F. Wallace). Chapeau.

gorgia della mente, […] si carichi del tutto il mio Li-Po (p. 24): è stato il dizionario a ricordarmi che gorgia non è il sofista ma la “Hoha-Hola holla hannuccia”. E Li-Po è l’iPod, presumo. Ma allora se c’è Li-Po ci dev’essere anche Gorgia, con la maiuscola. Scoperta curiosa che il sofista sia anche una gola (gorge). Curiosa o profonda? La scoperta, non la gola. – Mannaggia, quanto vorrei esser nato anch’io a Firenze.

drone alto levato [p. 25]: citazione inevitabile, visto l’argomento. Peccato che drone non assuoni con alto levato. Ma non si può fare l’impossibile.

DCIM [p. 27]: è la cartella in cui la fotocamera salva le immagini, ma mi piace pensarlo come un impossibile numero romano, una specie di mille-nove-novanta-trecento, un anno né futuro né passato, spazio-tempo sbagliato, che pure si libra accanto e sopra di noi.

Gabbia azzurrina [p. 29]: quando capisci che cos’è, il cuore non può fare a meno di tremare. Quel fiocco azzurro scolorito | garrotato alla maniglia. La madre che parla del più del meno, dove più e meno riacquistano tutta la densità semantica di presenza/assenza: Ne parlava | spesso col muro, diceva che almeno | parlava con uno, al più | con nessuno. I limiti dei versi sono essi stessi il muro su cui la voce della madre rimbalza (un muro in negativo, pagina bianca che borda le parole). È la stanza più terribile del libro. Dovrò ritornarci.

quasi antomata | in difetto [p. 36]: e se si dimenticasse la Commedia, e si provasse a trascrivere la poesia in corsivo, così che il guizzo della si trasformi in u? “Automata in difetto”, i pedoni: ugualmente meccanici, ma privi delle quattro eliche capaci di sollevarli da terra.

jo tani [p. 43]: “non adesso” in albanese.

O big Drone | you alleviate much, | the waste, the pain [p. 45]: esemplare raro, da preservare, di citazione che neanche Google conosce.

X-Sundowning [p. 51]: ho paura di questo sagrestano. L’ora è irreale, gli oggetti del culto sono fuori posto, il mondo non corrisponde alla fede nel mondo, e io non so che cosa significa vedo che fa |quel tanto / che sa di fare.

Walkera [p. 54]: anche quando si amano, i droni mica si toccano. Pensavo a un bello scontro a mezz’aria, che li riportasse tutti e due sulla terra (non è così che funziona un matrimonio, dopo tutto?). Invece no. Ciascuno per la tua strada, portandosi dentro l’uno l’immagine dell’altro. (Ma è davvero reciproca la cosa? Come ogni buona poesia d’amore, sentiamo solo una voce). Walkera è un marchio cinese.

un’ostetrica che | durante un turno di lavoro fa nascere due vite | senza più la sua per lei [p. 58]: a tratti, come soprappensiero, Pacini mette sulla pagina un brano di carne viva, e mi lascia ammutolito. La stratificazione dermica dei piani di lettura si sfalda e rimane esposto il tessuto pulsante della poesia. Sono versi forse meno rigorosi, ma sono tra quelli che ritrovo più volentieri.

farmi un’idea precisa della morte | del tipo di stupore che si prova a starne fuori  [p. 60]: vedi poco sopra. Il tragitto è più prevedibile, l’arco della strofa più in linea con gli stilemi consueti – ma che tuffo al cuore! (Inciso: la morte è quella abissale dei laghi sottomarini, densi di sale, dove la vita finisce in trappola. Appropriate dunque le invocazioni di Eliot e Valéry).

Si sta bene qui? C’è un buon clima? Si può essere felici | senza esserci mai stati? [p. 67]: avranno un giorno anche le facce offuscate di Google Earth, fantasmatiche, non umane, una voce per rispondere?

il suo cuore ritmava un bolero, aveva un discorso d’amore stranito negli occhi. Morendo mi metteva a dimora. [p. 83]: silenzio. Sipario.


Aerofotogrammetria

(per Riccardo Pacini)

Ma quali normative, quali caveat? Il drone utilizzato per scopi militari sopprime, non so dire, dilata la questione etica, morale [interferenza]… Chi sgancia la bomba ha il culo caldo schiacciato sulla sedia, la strage di innocenti o di colpevoli è una scorreggia silenziosa nella sala di comando. Il drone utilizzato per scopi umanitari lancia vaccini nei villaggi del Ruanda – la missione demandata crea distanza, non consola, non redime, umana com’è solo per difetto di fabbrica [interferenza]”.

Questo il succo del discorso che intercetta dalla stazione di radioamatore. E io? “Drone utilizzato per scopi ricreativi” pensa, eppure so di avere un compito da svolgere per lui.

Il padre gli diceva che un carrarmato dei suoi avrebbe potuto sparare dalla finestra fino alla cima della montagna. Vuole che vada a vedere, che arrivi lassù e veda, pur rischiando il flyaway o, peggio, la caduta. Sa che non reggo, il viaggio mi stanca, non ho sufficiente autonomia: la gittata del mio sguardo non può essere all’altezza dei cannoni del Trentunesimo Reggimento Carri. Sa che rimettermi a posto gli costerebbe molto denaro, e che non lo farà.

Il padre diceva spesso alla moglie che la forma di quei monti, a guardarla bene, sembra il profilo di un cane che dorme. O era un drago? Forse sta a me capirlo. Per questo devo andare a vedere: è nascosta dentro di me – tra lo statore e una lucente corona di magneti – la sua speranza inossidabile di esserci e rimanere, facendo memoria del padre e la madre.

Gabbia azzurrina

(in memoria di Ignazio Pacini)

III

Non sa più contare le volte che è salita sul tetto
per vedere sognante la via delle martore in fuga.

Quando sente i passi della figlia sulla testa
il rumore delle tegole che cedono
si ferma qualsiasi cosa / stia facendo e osserva
vetrosa come una lampada spenta
lo spazio circostante.
Consulta l’oracolo di ciò che le capita davanti
sia esso un vaso o una testa d’alce
ancora integra nella sua custodia
di infelicità greca.

Non ha senso il suo impassibile disagio
ma è questo che ha insegnato a sua figlia
a osservare dall’alto ogni posto di gioia
a diffidare della morte, anche se sta
precisa in una scatola da scarpe.

IV

Dalle persiane socchiuse del finestrone
ricorda, intravvede la corte marcita della casa di sua madre
il fiocco azzurro scolorito
garrotato alla maniglia, la radio d’anteguerra
che trasmette per starnuti l’Erlkönig.
Er fasst ihn sicher, er hält ihn warm…

Ecco l’armadio, il piano verticale, indifferente
il tedio dell’Hanon mandato a memoria
                                                                        acciaccatura
mancata per errore
                                              terrore del-
la madre che urla da
                                     dietro / la porta del bagno
invocazione inutile del nome:
morte del corpo / nel suo proprio corpo.

In seinen Armen das Kind war tot…
E bianca era la porta come / bianca era la morte.

Velocista

Qui a Livorno, gli Agent Fresco?
Di certo non è musica per te
specialmente ai volumi e al bollore
di quel forno.

Allora tanto vale che torni a casa a piedi
                                                                         la strada
tra i fumi e le mura degli stabili cinesi
è troppo stretta perché tu vada di lato
povera la tua andatura.

«Come tolgo la sicura dal revolver dello starter? »

E pensare che dieci anni fa
correvi i cento metri
in dodici secondi…
ora ti sfugge una bestemmia
quando respiri sulla brandina
la sirena di un’ambulanza, l’unico inno
del quale ora / porti la mano sul petto.

Docking Station

Prima di iniziare una nuova sessione di volo
lo vedo progettare viaggi che non sarà lui a fare
con la stessa rassegnazione di un’ostetrica che
durante un turno di lavoro fa nascere due vite
senza più la sua per lei.

Inebetito dal tepore delle luci soffuse della docking station
percepisco la corrente elettrica in tutto il corpo
questo accade: un’alluvione, lo sento chiaramente
avvolge le mie celle litio-polimero quando sono in modalità riposo
una sorta di meditazione vicina al sonno ristoratore
eppure un’infusione di potenza
fino a un massimo misurabile.

Idrocoltura – fase vegetativa

          Guardandolo dall’alto del terrazzo, l’orto era ancor più scalcinato e, sulla destra, vicino al recinto delle zucchine, c’era la vasca. Mia madre ha detto che alle sei di mattina il nonno usciva dalla cantina a piedi scalzi, prendeva la sistola verde serpente e riempiva d’acqua la vasca per farci il bagno. Non che lo abbia mai visto. Ogni tanto scendevo, andavo a vedere rametti piccole feci insetti e formiche morte a pelo d’acqua. La vasca era interrata: il nonno aveva scavato una buca con la pala – non mi ha mai insegnato la differenza con la vanga – strappato tutte le radici e gli arbusti, levati i sassi, prese le misure, poggiata la vasca arrugginita a sfioro col terreno. Non che lo abbia mai visto farci il bagno, e allora penso che è altrove (forse piegata in quattro nei fumetti di Alan Ford) che una qualche spiegazione si è mescolata − i tessuti rigidi dentro la mattina, dalle dita dei piedi alle scissure arate sulla fronte, il corpo duro una talea calata nell’acqua ogni momento più lurida e il cielo freddo un bagno cattivo un innesto contro la biologia familiare una vendetta il corpo cattivo calato a ossigenarsi nell’acqua argillosa, gli occhi buoni allineati ai fiori delle zucchine. Abituato alla morte quand’era già morto, «al popo, ‘ennardo, al popo». Avrei voluto già averti, drone, per vedere ciò che non mi era dato − correggere gli errori, zoomare sulla carne increspata del nonno, sfumarla con un filtro che fosse adatto, salvarlo dalla morte su un capiente disco rigido. Ma ormai ricordo solo la grande cattiveria.

4 commenti su “Modi di sorvolare

  1. Roberto R. Corsi
    25/11/2021

    Stando a “Il tempo ritrovato” di tale Proust, la cosa di leggere noi stessi nei libri più graditi accade a chiunque, quindi nun te devi preoccupà Guidone. Ottima recensione!

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  2. Con questa estrema sincerità, con questa adesione emotiva vorrei essere letta, vorrei sedimentare in memoria. Questa non è una recensione, è una trasmigrazione.

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  3. Bernardo Pacini
    25/11/2021

    Grazie mille, caro Guido. Non ho altre parole per una lettura come questa. Valeva la pena scrivere il libro anche solo per questo.

    Piace a 3 people

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Questa voce è stata pubblicata il 25/11/2021 da in letteratura italiana, poesia, recensioni con tag , , , .