Ci sono raccolte che si apprezzano perché vicine a noi, al nostro modo di sentire e, per chi scrive, al nostro modo di scrivere; altre invece si amano nonostante siano qualcosa di differente (o forse proprio per quello), e quindi accade di ritrovarsi in parole che non si sarebbe mai riusciti a concepire o immaginare, eppure in qualche modo ci appartengono.
A questa seconda categoria appartiene per me I morti di tutte le specie (Seri Editore) di Silvia Secco. Conosco l’autrice vicentina da tempo, ne seguo il percorso con attenzione, eppure questo libro è altro: è un flusso diviso in undici scene, o canti, o poemetti, in cui la parola diventa corrente, vento, percorso che supera la logica. Al tempo stesso, però, non è nemmeno uno sperimentalismo fine a se stesso, perché a setacciare la poesia rimangono serie di immagini familiari, in cui ci si ritrova e ci si riconosce. È proprio questo che genera stupore: sentire questa poesia propria ma non riuscire a scomporre il giocattolo, sapere che qualcuno è riuscito a parlare non a noi, ma di noi in un modo che ancora risulta sfuggente ma coeso e ricco di significato.
Meglio allora lasciarsi andare, che è poi il senso profondo del leggere poesia. Fidarsi. Credere. E passare e ripassare lungo queste scene per trovare nuovi frammenti, cogliere il senso e la padronanza delle parole e delle frasi, delle ripetizioni e delle dissonanze. Dedicare tutto lo spazio che I morti di tutte le specie merita, sapendo che non sarà una lettura facile o immediata. Astenersi perditempo, come si scrive negli annunci, perché questo è un tempo da cullare.
SCENA 10
Il momento esatto che ricorderò nel tempo,
quando il tempo si sarà slacciato da quel pomeriggio
e tu, bellissima madre dei fiori del campo
(che durano niente se li raccogliamo, e che non hanno
odore ma solo, solo meraviglioso ideale di fiore incorrotto:
soltanto ideale del fiore alla luce, sostantivo) – dicevo –
quando tu, bellissima incredula madre, sarai tornata alle cose
per le quali muoversi con leggerezza nello spazio della casa,
cose per le quali anche sorridere magari, senza rabbia
(senza le interrogazioni della colpa) – dicevo –
che il momento esatto che ricorderò sarà il raduno:
stridere milioni di cicale e il nostro stare immobili ma lì,
così vicini – le ginocchia nella stretta delle braccia e gli occhi
vividi come non mai sui tuoi, come si fa quando si teme se si ama –
come i superstiti nel pieno del diluvio dopo il mondo,
dopo che il mondo intero senza alcun avviso, aveva scelto.
La vedevamo così piccola nel suo vestito da potere sollevarla
sopra il palmo della mano. Sollevarla, ma non lo facemmo
poiché l’aria si era impadronita della casa. L’aria s’era impadronita
e si muoveva fra le stanze della casa – nelle stanze l’aria
si muoveva con le proprie prede povere di polvere, frantumi delle foglie –
e noi non lo facemmo, perché avevamo paura. Allora costruimmo
un cerchio di parole nel giardino, e la tenemmo al centro nel riparo
e promettemmo di vegliarla sempre nella sua diminuzione. Promettemmo
sempre che la luce rimanesse accesa, il perimetro del cerchio fosse intatto
con l’ingombro minimo del corpo al centro, nel riparo.
Il centro del mondo è la tua nuca: le piccole due punte della coda
– la rondine nera dei capelli sul letto mediano del fiume –
Ti guardiamo noi le spalle, e andrai avanti a camminare
lungo il corridoio nuovamente bianco, e dopo torneranno tutti,
bianchi tutti i fogli nella luce nonostante quello che sappiamo,
e le pareti della casa. E tornerà la luce bianca il sabato mattina
senza mordere dei cani – senza fame cupa per i cani –
E loro resteranno buoni finalmente, addomesticati nel fibroma.
Chiuderanno gli occhi.
***
è uno scrivere affascinante, caldo, avvolgente eppure capace di aprire lunghi orizzonti, il tutto mantenuto da una solida struttura.
Questa scena è molto bella. Grazie, voglio leggere questo libro.
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