perìgeion

un atto di poesia

Bodyterranean, Intervista a Simone Mongelli

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intervista di Massimiliano Damaggio

Marta mi chiede: Ti piace il disco di Simone? Sì, dico io, è bellissimo. Tanto bello quanto poco commerciale. Eh, sì, dice lei. Certo che tu e Simone ve la giocate alla pari: tu con la poesia e lui con la sua musica.

Stasera mangiavamo la pizza e gli ho raccontato di questo aneddoto con sua madre. Abbiamo sorriso con dolcezza, forse entrambi pensando a quanto Marta e Flavio abbiamo sempre creduto nel figlio.

Cos’è commerciabile? Lo scrive uno che per tirare su soldi prova a fare il venditore. I bisogni ci sono. Se non ci sono, si creano. Tutto può divenire merce. Basta un bel packaging e un po’ di filosofia da quattro soldi tipo rivista di moda. Sarà che alla poesia mancano manager capaci? Siamo liberi e salvi. Sì, ma poi dobbiamo trovare il modo di alzare qualche lira. Siamo forse liberi ma non salvi, sembrerebbe.

Nel mio curriculum laboris (e non vitae, vi prego) devo nascondere il fatto che il mio hobby è la poesia perché alle aziende commerciali ciò sembra del tutto in antitesi con la propria apostolica mission. Non è però colpa mia se i selezionatori del personale pensano che il poeta sia uno che succhia le matite e ulula alla luna; se ignorano, ad esempio, che Blaise Cendrars era un poeta che di commercio ne sapeva più di tanti manager ingobbiti sopra il laptop.

Tutto questo c’entra con Simone e la sua Musica, come con chiunque produca quel poco di bellezza che ci è necessaria per tentare di vivere fra un bancomat e l’altro.

Ogni tentativo di bellezza ha un prezzo molto alto, pagato tutto di tasca propria da chi ci prova ma soprattutto da chi ci riesce. Il prezzo di anni di studio, che non sono solo cinque come per imparare a calcolare il margine operativo lordo. Il prezzo degli strumenti. Il prezzo della sala d’incisione. Tutto il tempo che non si può impiegare a vendere profili in alluminio se si vuole sfiorare la bellezza, cosa che poi farà stare bene chi dopo aver venduto profili in alluminio tutto il giorno si barrica nell’auto e infila il cd nel lettore. E gode di questi doni che non di rado giustificano e salvano (sì, salvano) tutta una vita intera.

Ieri sera ho pianto, di pura gioia, ascoltando Piazzolla. Questo pieno significato della mia esistenza non me lo ha mai dato il raggiungimento del budget di vendita né il lavoro né il consorzio umano. Forse qualche sentimento e di sicuro l’instancabile, bellissimo e tremendo lavoro della Natura.

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L’amore. L’amicizia. Il convivio. L’esultanza del gol. La festa. L’ubriachezza. La poesia. La ribellione. Gli stati di grazia. La possessione diabolica. La pienezza della carne. L’orgasmo. Queste cose non hanno bisogno di giustificazione né di giustificativi. Tutti sappiamo che sono la finalità stessa della vita. Le uniche cose grandi e buone che ci può dare questo passaggio sulla crosta del terzo pianeta dopo il sole. Facciamo cose utili per aver accesso a questi doni assoluti e finali. La lotta del lavoratore per migliori condizioni di vita è, in fondo, lotta per l’accesso a questi beni, che splendono oltre gli stretti orizzonti dell’utile, del pratico e del lucro. Le cose inutili (o “in-utili”) sono la finalità stessa della vita.

Questo lo scriveva Leminski (approfondisci qui, se ti va). Insomma, solo ciò che è “inutile” è in fondo utile. E così, mentre chi succhia matite e ulula alla luna può trovare una qualsiasi scemenza da fare per raccattare denaro (e questa è la mia definizione del job), Simone non può. Come non possono un pittore o uno scultore. Mentre nella testa di qualcuno, e a sua insaputa, si compone una poesia, su cui può poi lavorare per iscritto nei saltuarii spazi lasciati liberi dal lavoro, nel caso di un musicista tutto questo non è possibile. Un musicista che faccia con serietà il proprio lavoro: Non può.

A volte immagino Miles Davis che torna a casa dal suo job di sales account (e non venditore), si toglie la cravatta, si sfila i calzini puzzolenti, piglia la tromba e, sfiancato dalle atrocità dette tutto il giorno, stecca all’infinito provando So What, non arrivando mai a chiamarsi Miles Davis. Io so che il mondo è pieno di questi omicidii.

L’artista è chi, fra le molte altre cose, riesce a donarci almeno un tentativo di bellezza. Di chi viene al mondo con il compito di riequilibrare il sottovuoto con la grazia del senso, e sempre fa fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. Fra i due desinari, poi, il tempo rimanente viene occupato dallo studio, dalla ricerca e non di rado da una sindrome maniacale per la perfezione, tipica di Simone, ad esempio, che prolunga all’infinito le ore di lavoro.

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Conosco Simone dal 1998. Voglio raccontare qui di come ci siamo incontrati perché so che gli piace molto la storia e anche perché le nostre vite si sono incrociate in una serie di partenze e arrivi, fino a combaciare qui, nella città di Atene, da dove vi scrivo. Nel 1998 partecipai a un workshop (e non laboratorio) di scrittura a Sarajevo. Il gruppone degli allora giovani artisti si formava a Roma – chi musicista, chi cinefilo, chi scrittore monco eccetera. Andai a prendere possesso della stanza nell’albergo di via Nazionale e ci trovai un ragazzino magro che prendeva parte al laboratorio di musica. Dopo lo scambio dei nomi e la stretta di mano, la conversazione fu molto breve. Domandò:

Da dove vieni?
Da Milano.
Anche io. Ma Milano Milano?
No. Vicino Milano.
Anche io. Ma da dove?
Ma è un paese vicino Monza, non lo conosci.
Ma anche il mio è un paese vicino Monza.
Vengo da Desio.
Ma anche io vengo da Desio.

In questi vent’anni, mentre io ho fatto la mia bella vita produttiva da impaurito benestante quale sono sempre stato, non ho al contrario mai visto Simone venire meno al suo tentativo di bellezza. Qui gli voglio dire grazie per questo insegnamento di vita, per questo suo testardo esercizio d’equilibrio a volte pagato con la caduta dal filo. Perché il suono che vibra per un attimo ed è perfetto, e rompe il cristallo, può mandare in frantumi chi lo crea e che tanta completezza non può raggiungere. “Perché siamo solo esseri umani”, mi ripete Simone da circa due anni in qua, a causa di certe mie cadute che non riesco, nemmeno stasera, ad accettare. In questi vent’anni non l’ho mai visto venire meno a se stesso – nella coerenza, nello studio, nel cercare e ricercare. In Umbria, suonare sulle pareti di una grotta con due sole bacchette di legno. Pubblicare con un altro percussionista, Nikos Touliatos, un disco di pura improvvisazione, seconda migliore produzione jazz del 2010 in Grecia: Αιφνιδίως, All’improvviso. Lo vedo sempre con una pala in spalla andare a cercare il tesoro sepolto dai pirati. Ogni giorno ne disseppellisce un poco anche per chi, come me, questo coraggio non l’ha mai avuto.

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Negli ultimi anni, Simone ha contribuito a portare in Grecia la Body Music (e non Musica del Corpo). Cosa semplice da spiegare poiché si tratta di utilizzare il corpo, tutto il corpo, come uno strumento musicale. Difficile da fare perché non è solo darsi due pacche sul culo per creare un ritmo o una risonanza, e poi magari metterci sopra qualcuno che canta. Cosa difficile da spiegare, almeno per me, perché il corpo è un universo in buona parte sconosciuto. Gli scienziati lo studiano e dissezionano, vi s’incuneano con i microscopii; eppure mi sembra che non possa essere solo questa la strada per la conoscenza.

Per un certo periodo, ho fatto esercizi di canto diplofonico. Al di là del triste risultato, dovuto al fatto che la mia fermezza nelle cose è pari a zero, ciò che mi dava soddisfazione era l’esercizio di respirazione e, di conseguenza, meditazione. Mi sembra che l’utilizzo cosciente del corpo apra a un diverso genere di conoscenza, probabilmente a quello verso di sé. Vedo questo rapporto fra l’utilizzo della voce e quello del corpo per produrre suoni…

…Sono assolutamente d’accordo. Una delle cose più belle del fare musica con il corpo è proprio quella di scoprire, o meglio riscoprire, un rapporto con esso. Ci si accorge di quanto lo abbiamo dimenticato e messo da parte, a scapito della logica razionale, e di quanto questo sia un grave errore. Il nostro organismo è un tutt’uno, dove convivono anima e corpo, sentimento e ragione, spirito e carne. Scordarsi di una parte di questo insieme è un perfetto esercizio di scollamento da se stessi, cioè per me di vera e propria perdita di identità, e di conseguenza un ottimo modo per alienarsi ed essere infelici. Il corpo ha una saggezza che non sospettiamo, una memoria indipendente; è la nostra prima guida nel mondo, quando scopriamo di esistere perché occupiamo spazio, e noi poi bellamente ce ne dimentichiamo per dare la priorità al ragionamento. Diventare grandi è una rinuncia a tante belle cose – e secondo me questa lo è. Smettiamo di cantare per imparare a parlare, smettiamo di giocare per cominciare a lavorare, smettiamo di vivere guidati dal cuore per vivere guidati da “progetti professionali”, che poi di solito significa monetari. La nostra vita smette di ruotare intorno a noi, ai nostri bisogni interiori, per ruotare intorno a uno stipendio. Siamo sicuri che sia la seconda, la vera vita?

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Dire che un musicista percussionista arrivi allo strumento primordiale, e cioè il corpo, mi sembrava in principio una cosa scontata. Ma poi mi sono detto che no, non credo sia consequenziale perché nell’utilizzo del corpo subentra una ricerca artistica che non è limitata allo strumento musicale…

…Caro Max, oltre ad aver fatto un bellissimo e commovente prologo, che mi mette perfino a disagio per le troppo belle parole spese nei miei confronti, fai anche delle domande fin troppo interessanti, ognuna delle quali meriterebbe un’intervista a sé… Cercherò di essere breve: per me arrivare a fare musica con il corpo è stata la naturale continuazione di un percorso artistico già intrapreso, di una ricerca che va in un certo senso all’indietro, cronologicamente ed evolutivamente, dal momento che l’evoluzione pare andare nella direzione del consumismo e della commercializzazione di qualsiasi cosa. Fare musica, fare arte, creare, è un bisogno primordiale; produrre dischi, cosa che avviene ormai da circa un secolo, è un’operazione commerciale, che quindi trasforma automaticamente la musica di quei dischi in un prodotto. A me questo non interessa. Nella musica cerco l’autenticità che corrisponda a quel bisogno primordiale di cui sopra, bisogno d’espressione e di comunicazione. Da qui il mio interesse per le musiche tradizionali, tramandate oralmente e nate al di fuori del circuito commerciale; da qui di conseguenza il mio interesse per gli strumenti tradizionali, quelli legati cioè a queste musiche. La mia ricerca si sviluppa da anni all’interno del rapporto tra musiche di tradizione orale (del Mediterraneo) e me stesso, nato a Milano e educato alla musica nelle scuole, nei conservatori e all’università. Questo interesse per le radici autentiche del fare musica, questo percorso a ritroso, mi ha portato poi abbastanza naturalmente dagli strumenti al corpo stesso, fonte e strumento primario del bisogno di espressione artistica umana.

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Fin qui non abbiamo nemmeno detto in cosa consista esattamente il tuo ultimo lavoro né come e dove l’hai fatto, né con chi, e le solite cose, eccetera, necessarie però a chi legge e ancora si sta chiedendo: Ma di che stanno parlando? E ti chiedo una cosa anche più concreta: mi permetti di riprodurre qui due tuoi pezzi, e me ne parli? Quello che più m’interessa è la tua ricerca. Tu dici che la musica popolare è un immenso serbatoio di materiale per la ricerca. Così come dici, ad esempio, che il futuro è nel passato.

Per quanto riguarda la musica tradizionale come fonte di ispirazione, e il viaggio a ritroso nel tempo, ho già accennato qualcosa nella risposta precedente. Per quanto riguarda l’album, si tratta d’un disco prodotto esclusivamente con i suoni del corpo, usato come strumento a percussione, e della voce. I brani sono tutti basati su melodie, danze e canti tradizionali (o della tradizione popolare) greci, con l’aggiunta di un paio di brani della tradizione pugliese. In alcuni casi si tratta di una rivisitazione personale di tali brani, in altri di vere e proprie composizioni originali ispirate ad essi. L’album è un mio progetto personale, che eredita in qualche modo l’esperienza di Kantu Korpu, un gruppo di musica corporale da me cofondato in Grecia e che tra il 2008 e il 2013 ha portato in giro per il mondo questo stesso repertorio da me curato. Per la registrazione del disco, i brani sono stati riarrangiati, ne ho creati alcuni nuovi, e ho collaborato con un buon numero di ospiti, provenienti da Grecia, Stati Uniti, Cuba.
Sono un musicista e mi ha sempre interessato, oltre all’evidente importanza dell’aspetto visivo in un progetto di musica corporale, riuscire a creare qualcosa di musicalmente autonomo, che potesse essere anche semplicemente ascoltato. Ora sto lavorando per riportare questo repertorio in scena, sotto forma di spettacolo, con un gruppo di artisti greci che ho messo insieme ad hoc.

Se vuoi possiamo scegliere un brano greco, “Apano sti triandafyllia”, e uno italiano, la “Tarantella del Gargano”.

Il primo, con ospiti quali il vocalist americano Bryan Dyer, la cantante greca Areti Ketime, l’ensemble vocale greco Stringless, è un esempio di elaborazione fondamentalmente ritmica del materiale tradizionale: uso nello stesso brano due tipi di metro diversi (entrambi usati nella tradizione), passando più volte da uno all’altro, utilizzando poliritmie e controtempi, differenziando anche armonicamente l’arrangiamento delle due diverse parti. Si tratta di un canto nuziale, ricco di simboli di prosperità e buona sorte.

” la pernice, miei occhi neri
ha fatto il nido fra le rose
fra le rose ha fatto il nido
miei occhi neri, e gli uccelli
fra le rose vanno e vengono
miei occhi neri, fra le rose
vanno e vengono, e le rose
tremano e si scuotono
miei occhi neri, e i petali
cadono sul vestito, i petali
sul vestito
della sposa “

Il secondo, cantato da Àlkis Alevìsos e arricchito dalla partecipazione di Bryan Dyer, dell’ensemble vocale greco Pleiades e del performer americano Antwan Davis, è stato rielaborato con una maggiore attenzione all’aspetto vocale, con due diversi tipi di arrangiamento a tre voci, che si alternano: uno più ritmico e moderno, l’altro più armonico e dal sapore contrappuntistico, sempre accompagnati dalla linea di basso caratteristica dell’accompagnamento tradizionale del brano. Stavolta si tratta d’un canto d’amore ma il linguaggio è ancora una volta tipico della poesia popolare: allegorico, ricco di simboli e metafore.

Il genere umano non trova in te un grande estimatore, diciamo così. Eppure tu fai musica con altre persone. Potresti farla da solo e invece no. Forse fare insieme cose inutili ci ridona una certa eleganza perduta? Perché, fosse solo per un secondo, qualcosa di meraviglioso accade. Ad esempio mi ha sempre colpito l’affiatamento tra i musicisti, la sincronia, come si trattasse d’un solo corpo perfettamente armonico in ogni sua parte. Se i libri della Storia dell’uomo sono in realtà solo pagine straripanti di croci, e l’uomo ne è l’Autore, perché questo contrasto? Non mi dire che l’Arte con la A maiuscola ci redime da noi stessi perché di Artisti laureati di dubbia sostanza umana ne son pieni gli scaffali. L’idea che mi sono fatta è che la musica è sì prodotta (anche) dall’uomo ma, per evidenti ragioni di carattere fisico, non gli appartiene, non ne è un’emanazione, cosa che invece sono tutte le altre arti. Cioè l’uomo è uno dei molti mezzi (uno strumento) che la natura utilizza per produrre suoni.

È molto interessante questa tua visione della musica. Un amico musicista, professionalmente sballottato tra la composizione, l’insegnamento e le “marchette”, una volta disse una cosa semplice ma molto densa, che mi ricorda la citazione di Leminski: “Viviamo e lavoriamo per quei fugaci e rari momenti in cui, su di un palco, si incontrano e si capiscono le nostre anime musicali: pura magia”. Non sono un estimatore del genere umano, e non credo si tratti di pessimismo. Anzi, a dire il vero non trovo nulla di più ottimista del continuare a credere in quello che si fa, nonostante tutto. Credo che la scintilla divina che fa parte della natura umana possa effettivamente venire fuori nell’atto di espressione artistica, più o meno consapevolmente. Quelli sono i momenti di pura magia di cui parla l’amico musicista. Sono forse anche quella “sospensione” di cui parla Montale. A me sembra che i diversi linguaggi artistici si assomiglino tutti, da questo punto di vista. Purtroppo la maggior parte del tempo è dedicata dagli uomini a tutt’altro, e per nostra grande sventura anche gli artisti, e qui intendo persone dotate di una certa sensibilità e, più o meno consapevolmente, capaci di sentire od esprimere la “scintilla divina”, si limitano solitamente a confinarla nel tempo e nello spazio. Etica ed estetica sono separate: l’arte e la vita scorrono parallele.

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Dopo il domandone filosofico di prima, di cui chiedo scusa, vorrei tornare a un campo a me più consono, che è quello delle domande tipo Marzullo: La vita è un gatto o i gatti aiutano a vivere meglio?

La vita purtroppo non è un gatto, perché è troppo piena di errori; i gatti invece aiutano indubbiamente a vivere meglio, ma solo a patto che siamo capaci di accettarli come maestri. Secondo me è esattamente quello che sono ma per comprendere i loro insegnamenti è necessario aver già compiuto un percorso interiore che ci permetta di riconoscerli come tali. Anche se sono sicuro che qualsiasi essere umano dotato di una minima sensibilità non possa rimanere indifferente al fascino di queste creature.

Ascoltalo su Itunes

Ora facciamo i commerciali e cerchiamo di vendere qualche copia del disco: dimmi come lo si può comprare. Ma raccontami anche come sei riuscito a finanziarlo perché credo sia stato un atto d’amore di molti nei tuoi confronti, sia come Uomo che come Artista.

 Il disco si trova su tutte le principali piattaforme di vendita di musica in rete, come nella maggior parte dei negozi di dischi in Grecia, alcuni dei quali lo vendono anche elettronicamente. Non facciamo pubblicità, diciamo che digitando “Bodyterranean” dovrebbe essere abbastanza semplice trovare il modo di acquistarlo, altrimenti si può sempre passare attraverso i miei siti personali. Ti ringrazio per l’occasione di parlare del “crowdfunding” (e non finanziamento collettivo), cioè il metodo che ho usato per raccogliere una parte dei fondi per la produzione del disco. Esistono piattaforme in rete che permettono di presentare un progetto (non solo artistico) che ha bisogno di finanziamenti, e chiedere pubblicamente contributi a chiunque voglia sostenerlo: il sostenitore sceglie la quota che è disposto a versare e riceverà in cambio, alla realizzazione del progetto, un corrispettivo “omaggio”, la cui entità è proporzionale alla quota stessa. Non si tratta di un pre-acquisto, perché solitamente “l’omaggio” ricevuto è di valore inferiore al contributo elargito, perché chi presenta il progetto chiede un vero e proprio sostegno economico e non semplicemente una promessa di acquisto. Si tratta di un’ottima soluzione per i musicisti indipendenti ma è molto interessante anche “filosoficamente”, perché crea un rapporto diretto tra l’artista e il suo pubblico, è un sistema democratico ed orizzontale di supporto materiale, e in prospettiva anche un modo per contribuire ad indirizzare dal basso il mercato musicale.

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Ho scritto tutta una confusione di cose a mo’ d’introduzione. Sinceramente, lo spunto m’è venuto dal fatto di dover eliminare dal mio curriculum laboris (minuscolo) che mi occupo, seppur marginalmente, di poesia. Allora ho pensato a te, a come invece hai sempre tenuto alta la testa, e a testa bassa vai passando per la vita, dicendo: Io sono un musicista e faccio di lavoro il musicista. Tu sai bene che nutro una grande ammirazione per questa cosa, che significa prima di tutto essere se stessi, vivere la vita secondo le proprie inclinazioni, anche a costo di problemi economici e psicologici, a costo di enormi fatiche. In una parola, sei un esempio di coraggio che manca quasi a tutti, e sicuramente a me per primo. Molte volte mi hai parlato delle marchette che fai o hai fatto per alzare qualche lira. E io t’ho sempre detto che comunque sono lavori nel tuo campo, nella musica. Bene o male, continuo a pensarla così. La vita che hai menato sinora ti ha dato la libertà, almeno, di essere ciò che sei? Per me, che ti vedo da fuori, sì.

Anche questa è una questione che meriterebbe approfondimento… Penso proprio che l’ideale per questa conversazione sarebbe di dividerla in puntate, una per ogni domanda, e magari con una scenografia ben precisa: tramonto, una sera non troppo calda d’estate, un tavolino in centro ad Atene e un bicchiere di vino (quello, però, italiano, combinazione perfetta che tiene insieme il meglio delle nostre due patrie…). Parliamo personalmente: tu per me sei un poeta, questa è la tua identità di essere umano, indipendentemente da quanto tempo occupi facendo altre cose e perché. È il modo in cui guardi il mondo, le sue cose, gli uomini e le loro debolezze. Allora, da questo punto di vista siamo uguali. Tu parli di coraggio, io parlerei di scelte (più o meno obbligate che siano): della tua scelta a me piace il fatto che della tua arte, della tua identità, tu non fai mai commercio, mentre io sono costretto in qualche modo ad avere a che fare anche con quello. E, da questo punto di vista, non mi infastidiscono tanto le “marchette” (che sono abbastanza coerenti con se stesse), ma proprio il fatto di dover vendere anche quelle cose che creo per puro bisogno spirituale, d’espressione individuale. Non è giusto, è una specie di commistione blasfema, e per di più non lo so nemmeno fare… Sono un musicista perché questo è il modo in cui guardo il mondo e le sue cose, gli uomini e le loro debolezze. Non perché mi pagano per esserlo. E in questo non siamo diversi. Siamo liberi.

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Vorrei ora farti la domanda di rito sulla Grecia. Non voglio però che mi parli delle barbarie cui siamo soggetti. Perché spiegare una cosa non è sperimentarla, e mi sembrano oramai parole buttate al vento tutte quelle che si son scritte e dette fin qui. Vorrei che tu mi dicessi perché nel 2005 decidesti di venire proprio qui e non di andare altrove. Vorrei che chi legge potesse almeno intuire il perché qui è ancora (ma non sappiamo per quanto) diverso vivere che non in Italia. In fin dei conti, cosa cambia? Non facciamo le stesse cose? Che cosa, qui, ancora sopravvive che in Italia è invece morto da tempo?

Insisti, eh eh… Vorrei avere un po’ di quel dono sublime che avete voi poeti, la sintesi, secondo me la somma tra le doti artistiche. La Grecia sta vivendo le conseguenze di un barbaro esperimento scientemente preparato. Non so cosa ne resterà, se e quando questa burrasca sarà passata. Posso parlare della Grecia che ho conosciuto, quel paese che mi ha affascinato perché più indietro di noi sulla strada del progresso consumista, conformista e capitalista (tutte parole con la “c”: che dici, è un caso?). Un paese dove ancora non avevano svenduto e distrutto tutte le spiagge possibili, dove incontravi ancora esseri umani con la propria personalità anziché tante copie dello stesso modello (tendenzialmente televisivo), dove si viveva con austerità (quella vera) ma senza vergogna, dove a degli stranieri che suonavano nella piazza d’un piccolo villaggio si offriva da mangiare e da bere, ballando alla loro musica, dove si chiacchierava immediatamente con degli sconosciuti alla fermata dell’autobus, dove non c’era bisogno di creare un’occasione per fare festa, dove la gente che non corrispondeva al modello dominante non faceva paura, dove avere una vecchia automobile non era una vergogna, dove per aprire un locale bastava avere qualche sedia di legno e qualche tavolino, ma con buon cibo fatto in casa (anche senza rispettare le norme igieniche dell’UE), dove si sentiva tanta musica, e se ci si divertiva si faceva mattina anche nei giorni lavorativi… Potrei continuare a lungo… Ho usato l’imperfetto: spero davvero con tutto il cuore di poter ricambiare tutti i tempi verbali di questa lunga frase al presente.

C’è una cosa che, forse in modo provocatorio, vorrei vedere con te. Prima di arrivare alla domanda, faccio una premessa lampo. Chiedo scusa al cantautore Capossela ma l’operazione da lui fatta con il rembétiko mi sembra una cosa abbastanza mediocre che ha causato un danno al genere in questione, perché ne ha fatto una simulazione, l’ennesima in un mondo che ormai è solo quello. Ascoltando il suo lavoro, io di rembétiko non ci ho sentito praticamente nulla. Suonare un buzùki o un baglamadàki non significa automaticamente fare un rembétiko. Questo genere musicale mi sembra figlio di un determinato periodo storico ma soprattutto di un determinato ceto sociale: innestare la propria aliena personalità, sia etnica che culturale, nel tessuto sociale che è il rembétiko senza un minimo di convivenza significa solo riprodurne gli aspetti più superficiali. Non so se tu sia d’accordo oppure no. Perché questa riflessione? Il rembétiko che hai riproposto tu, Tsachpìna, mi sembra molto più “originale” di qualsiasi rifacimento “in stile”, anche e forse molto più di quelli che gli stessi greci fanno.

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Sono assolutamente d’accordo con te, anche per quanto riguarda l’operazione di Capossela, che per altro apprezzo per altre cose. Un’altra puntata molto importante di questa conversa-zione… Non sono un esperto di rembétiko e direi che non abbiamo comunque lo spazio per analizzare un capitolo così importante della musica popolare greca. Quello che possiamo accennare è che la storia del rembétiko è legata all’arrivo dei profughi greci dalle zone dell’Asia minore, negli anni immediatamente successivi al 1923, quando fu concordato lo scambio di popolazioni con il neonato stato turco. Circa un milione e mezzo di greci furono catapultati in una madrepatria che allora contava circa quattro milioni e mezzo di abitanti. A parte la lingua, non avevano molto in comune con i compatrioti, e portarono con sé i propri usi e costumi, la propria cultura. Tra le cose che arrivarono con i profughi c’era anche il rembétiko, la musica che esprimeva i valori d’una sottocultura urbana “marginale”, prodotta e consumata all’interno d’un ambiente sociale fatto di droga e coltelli, prigione e scontri con la polizia, contrabbando e onore. La musica in questo ambiente aveva un ruolo fondamentale, identitario, e non faticò a trovare terreno fertile nelle nuove periferie urbane elleniche, specialmente ad Atene e al Pireo, improvvisamente inondate di profughi, dove tra povertà ed emarginazione sociale il rembétiko si sviluppò rigoglioso. Per capire la portata sociale del fenomeno, basti ricordare che durante la dittatura di Metaxàs, il rembétiko fu ufficialmente vietato e solo circolare per strada con i suoi strumenti (in particolare il bouzouki) bastava per essere imprigionati. Direi che è un po’ offensivo trasformare tutto questo in una musica da bagordi bohémiennes, da ubriaconi festaioli e perdigiorno, come mi pare abbia fatto il buon Capossela. Ma nel mondo dei “prodotti” artistici, la superficialità non è mai un problema.

La vita è un concerto o i concerti aiutano a vivere meglio?

Tra i vari impegni a venire, vorrei segnalare la prima ufficiale del nuovo spettacolo Bodyterranean, il 20 ottobre ad Atene (Teatro Porta), nell’ambito dell’International Body Music Festival, ed una data in Italia: il 26 novembre, con lo spettacolo teatrale Dall’altra parte del mondo, di cui ho curato le musiche, a Biella.

Leggi anche

MEDITERRANEO SENZA STRUMENTI
Intervista di Simone Mongelli a
IL GIORNALE DELLA MUSICA


http://simonemongelli.wixsite.com/bodymusic
http://www.simonemongelli.eu/

Informazioni su massimiliano 最後花 damaggio

9 commenti su “Bodyterranean, Intervista a Simone Mongelli

  1. Antonio Devicienti
    10/10/2017

    …ogni tanto un blog è capace di trasformarsi in attimi di felicità…

    Piace a 3 people

  2. angela palmitesta
    10/10/2017

    In un dizionario di lingua italiana del quale, purtroppo, non posso lasciare riferimento bibliografico poichè non è stato ancora edito ed esiste solo nella mente di un uomo, oggi ho letto che ” significativo” si usa in riferimento a ciò che è sincero e trasmette passione.
    Questa intervista che ho appena letto è indubbiamente molto significativa perchè ci descrive quanta coerenza e quanta passione possiedono gli artisti.
    A volte mi chiedo, domanda stupida ma non troppo, quale sia la differenza fra coloro che “fanno” gli artisti e coloro che “sono” artisti.
    E a volte mi rispondo così: la leggerezza che ci trasmettono. Leggerezza intesa come levità, come limpidezza, come immediatezza , come purezza, come densa e compiuta semplicità.
    Nonostante la fatica della loro ricerca, coloro che “sono” artisti, dopo aver scavato a lungo dentro le viscere della terra o del cielo ( ognuno inizia il proprio buco dove gli pare), prendono la pala in spalla come se niente fosse – quasi non ci fosse sudore sulla fronte- e proseguono.

    Ciao Simone, sei piccolo ma davvero grande.

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  3. francescotomada
    10/10/2017

    E’ confortante trovare, su un blog, articoli che davvero insegnano qualcosa.
    Ecco, non so che altro dire, leggendo mi sono sentito a casa.

    Francesco

    Piace a 2 people

  4. ninoiacovella
    11/10/2017

    Vi aspettiamo dal vivo a gennaio, musicista umano e poeta umano, a Milano. Stiamo lavorando per voi.

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  5. Pingback: Musica e molto altro | riccardobaldinotti

  6. ninoiacovella
    15/10/2017

    “L’amore. L’amicizia. Il convivio. L’esultanza del gol. La festa. L’ubriachezza. La poesia. La ribellione. Gli stati di grazia. La possessione diabolica. La pienezza della carne. L’orgasmo. Queste cose non hanno bisogno di giustificazione né di giustificativi. Tutti sappiamo che sono la finalità stessa della vita. Le uniche cose grandi e buone che ci può dare questo passaggio sulla crosta del terzo pianeta dopo il sole. Facciamo cose utili per aver accesso a questi doni assoluti e finali. La lotta del lavoratore per migliori condizioni di vita è, in fondo, lotta per l’accesso a questi beni, che splendono oltre gli stretti orizzonti dell’utile, del pratico e del lucro. Le cose inutili (o “in-utili”) sono la finalità stessa della vita.”
    Concordo con Leminski, e quindi con te Max.

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  7. Giorgio Galli
    20/10/2017

    L’ha ribloggato su La lanterna del pescatoree ha commentato:

    Un pezzo di dialogo e di scrittura dove si inciampa di continuo in frammenti di poesia e in riflessioni dallo straordinario potere liberatorio. Mi identifico senza riserve nelle abissali considerazioni sul conflitto mondo della poesia / mondo del lavoro, pur non essendo un poeta, e nella denuncia dei tanti omicidi quotidiani di artisti sgozzati sull’altare della fretta, della produttività, dello stipendio. Non avrei saputo dirlo, però, con altrettanta infallibile immediatezza. Bisogna essere poeti per dirlo. Come Massimiliano Damaggio e Simone Mongelli.

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  8. ninoiacovella
    21/10/2017

    Tutta questa intervista apre il campo alla meraviglia degli incontri. Quando due artisti puri si incontrano inizia un rapporto di fratellanza. In questa intervista sentiamo questo amore ed è bellissimo e vitale leggervi.
    Grazie
    Nino

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  9. lapoetessarossa
    16/03/2018

    Voi siete davvero bellissimi. Grazie per questa in-utile lettura che ha spezzato il mio casual friday.
    (questo blog è una forma di ossigeno chimicamente non analizzabile, o una sostanza stupefacente di quelle che danno dipendenza)
    Silvia

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