perìgeion

un atto di poesia

Un nuovo genere letterario: il racconto rotto di Enrico De Zordo

di Giusi Drago

 

Enrico De Zordo, scrittore altoatesino dall’umorismo stralunato e dolente, è specialista in “racconti rotti”. Così scrive nell’avvertenza del suo Divertimenti tristi. Centoundici prose minime, edito da Alphabeta Verlag nel 2018:

«Divertimenti tristi è un’opera in prosa appartenente al genere letterario del “racconto rotto”.

Per fare un racconto rotto bisogna procurarsi un racconto intero, salire le scale fino al settimo piano e gettarlo da una finestra del sottotetto. Poi si scende per strada e si raccolgono i pezzi: poemetti in prosa, messaggini, aforismi dilatati, apologhi, sequenze interrotte, onirigrammi, romanzi compressi, divagazioni, miniature nitide in uno spazio brumoso.

I pezzi spaccati a metà e quelli non troppo rovinati si buttano via. Si tengono solo i frammenti riconoscibili, che vengono levigati lungo i bordi e incollati tra loro senza un disegno preciso.

Divertimenti tristi raccoglie un centinaio di prose minime tenute insieme con lo scotch. Sotto le strisce traslucide del nastro adesivo si vedono le linee di rottura di un racconto che non si aggiusta più».

Questa autoattribuzione di genere assegna alla scrittura e allo stile una collocazione irregolare, frantumata e frastagliata, cioè intermedia fra poesia e prosa. De Zordo è uno scrittore, anzi un poeta che non si stanca di osservare da vicino quel che è rotto, ben sapendo che non si aggiusterà più. Dato che ciò che è intermedio e parziale non può mai spacciarsi per intero, la scrittura non sceglie mai uno solo dei due poli. Il suo stare nel mezzo è dichiarato già a partire dal titolo della raccolta: il lato umoristico preso da solo sarebbe troppo chiassoso, va corretto con la melanconia – come sa ogni buon comico che si rispetti.

Lo stare in mezzo, l’essere intermedio significa non aderire in modo cieco a nessuna appartenenza: questo atteggiamento non riguarda solo il genere letterario, ma anche il bilinguismo (l’autore considera ironicamente i suoi testi bilingui, ma scritti per caso in italiano) e la politica: De Zordo è uno scrittore di confine, vive in una terra chiamata Altoadige o Sudtirolo, e nelle sue prose minime ci sono molti riferimenti alle contraddizioni e alle tensioni che questo genera.

Ma quel che De Zordo intende eludere è proprio “il racconto ufficiale dell’autonomia, fatto di lamenti e vittimismi incrociati, oppure di celebrazioni senza mai grandi entusiasmi» come scrive Gabriele Di Luca nella postfazione al libro. Un breve testo esemplare in tal senso è Racconto bilingue scritto in italiano:

«Lo straniero che mi batte una mano sulla spalla nei bagni pubblici di Brunico mi rivolge una domanda mentre orino:

– Scusi signore, gliel’ha detto nessuno che qui da voi esiste una toponomastica del malcontento?

– No, – gli rispondo.

– Mi stia a sentire allora: il malcontento del gruppo etnico tedesco in quanto minoranza statale si dice vittimismo. Il malcontento degli italiani in quanto minoranza provinciale lo chiamano disagio. Il malcontento dei ladini in quanto minoranza nella minoranza ha un nome ladino che voi non siete nemmeno in grado di capire. Il malcontento delle minoranze straniere è un gemito indistinto e dunque non ha nome.

– Mi perdoni, – gli chiedo – cosa vuole dirmi con tutto questo?

Lui mi risponde lapidario: – Nulla. Solo che un posto in cui la totalità delle persone si sente in minoranza è abitato da una maggioranza di imbecilli.

Mentre lo sciacquone diffonde il suo rumore come un canto libertario, capisco di aver trovato un compagno di strada e di latrina».

Mi soffermerei sullo “sciacquone come canto libertario”: un’immagine che esprime perfettamente la scissione fra desiderio e realtà. Il rumore d’acque che potrebbero finalmente portar via i vari vittimismi è un canto che si alza da latrine, sicché la liberazione promessa sembra già ipotecata. Qui l’umorismo si tinge d’amaro e di grottesco. Sembra quasi che uno dei numi tutelari di De Zordo, Robert Walser – scrittore che nel suo essere ilare e svagato sempre cammina su fili tesi su dirupi – si unisca a Thomas Bernhard, maestro di beffarde deformazioni. Del resto lo scrittore altoatesino ha uno sguardo sociologicamente acuto e insofferente, non certo tenero con i propri conterranei: in Das Bier unserer Heimat (La birra della nostra patria) narra di  una giornata trascorsa oziosamente a bere chinotto in un bar di Bolzano, da cui gli capita di osservare un enorme manifesto bilingue che “vale da solo un trattato di antropologia”. Si tratta della pubblicità della birra Forst, dove sotto due bicchieri spumeggianti campeggia lo slogan: “Das Bier unserer Heimat”, tradotto in italiano con “Birra allo stato puro”. Commenta De Zordo: «è un involontario aforisma sugli oltre ottan’anni di sradicamento italiano in Sudtirolo. Non c’è niente da fare: il riferimento alla Heimat, che in tedesco funziona sempre, sugli italiani non esercita alcun appeal».

Tornando al significato del genere “racconto rotto”, è importante sottolineare che esso possiede una spiccata attitudine filosofica, la quale si esprime in modo aforismatico, per lampi d’intelligenza e paradossi, sempre rischiando l’autofagismo: il racconto rotto divora le proprie possibilità di sviluppo, e le divora proprio perché svilupparsi e tessere la propria trama significherebbe procedere verso quel completamento, verso quell’intero che programmaticamente la frantumazione non consente.

I racconti rotti non sono racconti veri e propri, ma esercizi preparatori a un narrare che si autoelide: sta in ciò la loro forza e la loro specificità. L’operazione letteraria di De Zordo potrebbe avere segrete consonanze con la poesia di una grande poetessa semidimenticata, Piera Oppezzo, in particolare con i versi della poesia Nastro di inizio:

 

Non è una composizione

è il suo nastro preparatorio.

 

Nitido emerge solo qualche avvio

di raucottuse insignificanze.

 

Ma c’è a sorpresa chi esegue (è mattino)

così contente con se stesse le parole.

                              E fresconegligenti.

 

L’inizio qui è, malgrado tutto, una promessa, e nella negligenza c’è freschezza: gli inizi corrono il rischio di essere insignificanti, ma sappiamo ormai – l’abbiamo imparato da Freud e dalla psicoanalisi – che solo indagando l’insignificante troviamo ciò che vale la pena ricordare. Per questo le parole – come sognatori alle prese con i loro sogni – sono contente con se stesse. Almeno per un momento. Almeno al risveglio.

Per chiarire meglio il desiderio allucinatorio che talora anima queste prose minime (che sembrano aver ben assorbito la lezione di Buzzati), consideriamo Un uomo solo che inizia così: «Quando mi cadde la benda dagli occhi, potei vedere la “menzogna così com’era». Ci troviamo alla stazione di Berlino dove un uomo seminudo è così solo da “divorare il proprio corpo che si spacca” (ecco l’immagine ripetuta dell’autofagia, più violenta del walseriano “voler sparire” o diventare uno zero sociale). Il solitario è attorniato da  altre figurazioni  oniriche  e  improbabili, per esempio un pettine a misura d’uomo che arrossisce per non aver convalidato il biglietto. Infine l’uomo solo riesce quasi a completare la propria cancellazione, il proprio mandarsi  in fumo: «ormai soltanto bocca, si nutre di parole. Inconsistente, piatto, vano, produce nuvole di segni e le divora».

 

Turbamenti di uno spolveratore

 

È sconsolato, l’eroe del nostro tempo. Le persone che lo incontrano si rivolgono a lui con deferenza chiamandolo signor spolveratore.

«La polvere non finirà mai, – pensava, – sulla polvere si potrà sempre contare».

Erano gli anni del suo apprendistato e oggi si deve ammettere che aveva ragione. Infatti eccolo lì, immerso nel più esteso polverone che si possa immaginare.

Polvere, polvere a perdita d’occhio, ma nessun mobile in vista. Dove sono finiti i comodini, le librerie, le scarpiere? E pensare che per essere felice gli basterebbe un mobile, uno solo! Si accontenterebbe di una maniglia, o di un portasigari di nessun valore.

Chiede forse troppo? Basterebbe che questa polvere trovasse un po’ di pace, che si depositasse su un ripiano qualsiasi. Allora lui si armerebbe dei suoi panni e tutti capirebbero di che pasta è fatto.

– Ma così no, no! – dice. – Così proprio non va.

E, disperandosi, stringe i pugni con forza, finché il manico in noce del suo spolverino gli si spezza tra le dita.

Frammento per il gatto

 

A compimento di una storia minima, un vecchio strambo continua ad accarezzare il gatto acciambellato sulle sue ginocchia, non accorgendosi che al posto dell’animale, a parte uno spazio vuoto cui viene attribuita forma di felino, non c’è nulla.

L’assenza del gatto però è così precisamente evocata dai gesti benevoli del vecchio che il suo non esserci si manifesta in ogni dettaglio: quella del micio è una mancanza che miagola, si raggomitola, fa la gobba.

Non basta affermare che il gatto non esiste; bisogna dire che sulle ginocchia dell’uomo, lisciato da mani affettuose, esso manca pelo per pelo.

Ogni tanto, circa una volta al mese, il vecchio si persuade che l’animale sia morto, o sparito chissà dove; allora non parla più e smette di mangiare finché i vicini di casa annunciano la ricomparsa del felino.

Dal canto suo, una volta tornato al proprio posto, il niente si lecca e fa le fusa. Pare che solo accarezzando il fantasma del suo mantello il vecchio si senta vivo.

 

Tre gemelli

 

La stringata descrizione di due gemelli seduti sui sedili posteriori di un tassì.

I due sono identici in tutto: hanno occhi uguali, bocca uguale, scarpe uguali. Entrambi pesano sessantaquattro chili e la stessa ruga d’espressione solca la fronte dell’uno e quella dell’altro. Mentre il gemello che occupa il sedile dietro il tassista alza la mano destra e se la passa tra i capelli, il gemello seduto al suo fianco fa lo stesso.

 Nemmeno il fatto che il linguaggio del primo sia aulico e quello del secondo volgare costituisce una differenza rilevante, poiché i due hanno smesso di parlare da diversi anni.

– Uffa, deve pur esserci un limite all’eguale!

Quando l’autore si accorge che il tassista è identico ai due passeggeri, per evitare un’inutile proliferazione di gemelli introduce nel racconto un incidente stradale.

Il gemello aulico spira, quello volgare crepa. Il terzo gemello, linguisticamente equilibrato, si limita a morire.

Questo è un genere di storia che non mi interessa più.

 

La bara

 

Nei mesi scorsi mi è cresciuta addosso una bara, lucida e coriacea come la scorza di una castagna diricciata. È a norma di legge, impermeabile. La cassa esterna è di legno massiccio, quella interna di zinco, senza imbottiture. Se aderisse al mio corpo, non ci sarebbe niente di strano. Purtroppo è molto lunga, troppo larga, e io ci ballo dentro.

Quando cammino per la strada, sbatto contro le pareti interne del feretro; il risultato è che ogni volta mi sbuccio la fronte e le ginocchia.

Fare pipì, considerando che la bara è sigillata, diventa una seccatura, ma anche parlare è complicato: le mie parole si fermano sulla lastra di zinco; non escono dalla cassa, non tornano indietro. Allora è meglio tacere.

L’altro ieri sono andato da un falegname per farmi accorciare la bara, anche per stringerla un po’; lui però ha tergiversato.

– È così, va bene così, – ha detto, – le sta a pennello, cosa vuole da me? È la moda. Quest’inverno vanno le bare ampie, abbondanti, per le attillate bisogna aspettare.

 

Morte di un poeta

 L’uomo ricoperto di stracci e di cartoni morto assiderato su una panchina dietro la stazione era un poeta sperimentale.

Di lui non si sa molto: era timido, parlava in modo strano. Scostandosi i verdi filamenti d’alga che gli invadevano la fronte, diceva di abitare in mezzo al mare. Viveva al Nord da molti anni, ma i suoi capelli color sabbia erano rimasti impigliati nei bracci rugginosi di una fabbrica dismessa di Piombino.

Voleva costruire, al centro della burrasca, una fortezza in versi, ordinatissima, quadrata, con le fondamenta poggiate sulle schiume e tra i marosi di un mare molto grosso. Per questa ragione, ogni anno nuotava fino a riva con il proposito di rubacchiare materiali e strumenti ai più sicuri poeti di terra, per poi tornare, sempre, in alto mare.

Quando rinvennero il suo corpo sulla panchina dietro la stazione aveva un braccio disteso in avanti, nella posizione di chi compie l’ultima bracciata prima del traguardo.

 

Il posto fisso

 Dopo anni di precariato, Enzo ha il posto fisso: lavora in un armadio a due ante appeso alla facciata di un campanile. Il suo lavoro è simile a quello dell’uccellino di legno che esce dall’orologio a cucù, ma è molto più complicato: allo scoccare di ogni ora uno sportello del guardaroba si apre cigolando; poi appare Enzo, incastrato in una grande scatola per sgombri inchiodata alle pareti dell’armadio.

– Tacere, sparire, essere anonimo, – dice.  – Solo questo chiedevo: un posto sicuro, un pertugio stretto, a misura d’uomo, dove poter marcire con decoro.

Se il campanile non si trovasse in un paese disabitato, Enzo raccoglierebbe applausi, ma va bene così: in un periodo in cui i laureati faticano a trovare un’occupazione, lui ha il posto fisso.

 Sul giornale c’è scritto che Enzo incarna il declino dello stile tragico. Fra le righe si capisce che l’armadio non è fissato bene alla parete: quando soffia il vento dondola paurosamente. A dire il vero anche il campanile oscilla un po’.

 

 

Enrico De Zordo è nato a Brunico nel 1969 e vive a Bressanone. Laureato al DAMS di Bologna con una tesi su Laborintus di Edoardo Sanguineti, ha pubblicato la raccolta di versi Perimetri (L’Autore Libri Firenze, 1998). È stato insegnante di italiano in una scuola di economia domestica e commerciante di vini. Dal 2010 lavora nell’ambito dei servizi sociali.

 

 

4 commenti su “Un nuovo genere letterario: il racconto rotto di Enrico De Zordo

  1. Massimiliano
    19/03/2019

    Come sempre, Giusi Drago mi fa bellissimi regali. La sua scrittura, ariosa ma precisa, che incarta il regalo, e il regalo stesso, sempre azzeccatissimo. Per quanto riguarda Enrico De Zordo, dico che da molto tempo non leggevo cose tanto interessanti, ariose ma precise, fulminanti e visionarie come queste. Grazie a entrambi.

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  2. francescotomada
    19/03/2019

    D’accordo. Giocare con l’ironia e l’assurdo spesso è una scorciatoia per non assumersi la responsabilità della scrittura. In questo caso invece no, ed è motivo di grande interesse e originalità.

    Francesco

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  3. grisdrago
    19/03/2019

    Sì, si sente che questi testi non sono geometrie della mente o giochini di dissacrazione formale, io avverto la tensione conoscitiva e il disincanto che ha generato la scrittura. Grazie Massimiliano!

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