Questo è quello che ci offrono i versi di Claudio Pasi: una lezione di poesia. Assoluta, intensa, unica. O, se si preferisce, una passeggiata nel tempo.
La recente pubblicazione di Ad ogni umano sguardo (Nino Aragno editore, Torino, 2019, pp. 152) rappresenta senz’altro l’occasione di porre nella dovuta luce l’opera poetica di un autore, Claudio Pasi, che si distingue invece per l’ammirevole distanza alla quale colloca la sua persona.
La naturalezza con la quale i suoi versi ci parlano, la semplicità con la quale il poeta scrive ci disorienta. (Mal)educati all’eccesso e allo strepito, di voci e di numeri, ci stupiamo di come la parola poetica possa e riesca a essere di pulizia estrema, il linguaggio essenziale, la successione dei versi in rapidi tratti la rappresentazione della traiettoria con la quale l’umano sguardo abbraccia l’ampiezza di una storia che attraversa i millenni. La prima poesia della raccolta di Pasi si colloca infatti nell’88 dopo Cristo (dal titolo programmatico La navigazione interna nell’88 d.C.), l’ultima (Congedo senza data, a chiudere l’arco temporale ma lasciandone aperta la prospettiva) nel nostro presente, dedicando ciascuna poesia a fatti eventi e personaggi specifici di ciascuna epoca, infittendosi nel numero mano a mano che ci si avvicina ai nostri anni, avendo così attraversato di secolo in secolo la vicenda umana bimillenaria. Per quanto Alessandro Fo (un classicista!) parli nel testo introduttivo di “atlante enciclopedico dell’esistenza”, non siamo in presenza di una qualche forma di neoenciclopedismo. Piuttosto la poesia di Pasi storicizza l’esperienza, la propria esperienza, offre e sacrifica – per così dire – la propria carnale esperienza grazie al pensiero lungo e alla profondità di sguardo umano che la poesia consente.
Ma non c’è, nella raccolta, qualcosa di straordinario, di esuberante, a suo modo di clamoroso. Al contrario: Pasi osserva, registra, traduce in modo all’apparenza neutrale: il dato banale, inerte diviene a suo modo paradigma ed epifania. Le poesie dell’opera concrescono grazie all’abilità tutta particolare di cogliere l’elemento minimo – un fatto, un oggetto, un nome – e su questo costruire poesie di assoluto nitore e precisione, storica e linguistica (una delle curiosità, anch’essa messa in luce da Fo, è l’innesto nei versi di parole o espressioni oramai fuori uso ma assolutamente pertinenti e coeve alle circostanze storiche delle singole poesie in cui vengono adoperate). La cosa straordinaria, questa sì, è la capacità di osservazione dell’autore, ampia nella durata e incisiva nella profondità. Ad essa, Pasi aggiunge una notevolissima capacità di registrazione e di traduzione: non basta, infatti, osservare e registrare, occorre al poeta trasformare e rendere quanto “raccolto” in una opera completa di compendio. Anche per questo, quindi, le poesie dedicate al Novecento, agli ultimi decenni corrispondenti alla biografia dell’autore, sono, come detto, in numero maggiore: in esse incontriamo il poeta e l’incontro del poeta con la propria storia (si leggano, qui proposte, 16 marzo 1953 e Madre e figlio nel 1967). Ma non c’è cronaca o cronachismo, la vicenda umana viene detta per mostrarne la grandezza e la piccolezza, l’apparire e il disparire, la provvisorietà con la tenace volontà di conservarne una memoria, in un divenire tanto inarrestabile quanto inesorabile “nel lento/ oscuro decremento delle cose”; e in fondo gli episodi storici che danno sostanza alle poesie trovano un equivalente in quelli del presente: vicende di guerra, resoconti di cronaca efferata, cronache del lavoro, uno sciopero, un’eclissi, l’apparizione di una cometa, eventi naturali, ritratti di persone e di paesaggi, necrologi, biografie minime, ricordi di famiglia, di scuola, di vacanze… Tra questi fatti non vi è una gerarchia di importanza, essendo tutti allo stesso modo illustrativi della condizione umana quale “transito di ombre”, e se proprio deve esserci una preferenza nel “racconto poetico” di Pasi, quella va verso episodi e personaggi minori.
Questo attraversamento temporale Pasi lo compie con assoluta naturalezza e perfezione formale; perfezione formale che rende la lettura una esperienza completa in quanto consente al testo di stagliarsi in modo netto e visibile, non ci sono io, non ci sono dei, ci sono uomini, ci sono donne, le loro vite e i loro destini, ci siamo noi, “noi stessi nulla/ [che] guardavamo/ il nulla che era, il nulla che non era”. La poesia in pagina ha grande forza visiva, quindi, non raggiunta per immagini, allusioni, evocazioni o artifizi verbali, ma per la verità dei fatti medesimi, per la forza della loro materialità.
E tutto questo Pasi lo compie grazie a una calibrata noncuranza e a un andamento narrativo che si appoggia sull’endecasillabo, donando bellezza ed equilibrio ai versi e indulgente tenerezza agli uomini (e a sé stesso) che ne sono protagonisti, facendo così risaltare il senso della condivisione umana ed etica (la pietas di cui parla Fo).
Una passeggiata nel tempo, dunque, dove “ogni cosa si dissolve/ e lentamente scivola nel nulla”. O, se si preferisce, una lezione di poesia: semplice, precisa, essenziale, come deve essere.
LA NAVIGAZIONE INTERNA NELL’88 D.C.
Per queste terre basse, nella nebbia
o sotto il sole a picco, lungo prode
inabitate e astrusi labirinti
di canali e lagune, trasportiamo
derrate e passeggeri da Claterna
agli scali di Spina conficcando
nel fondale melmoso le pagaie.
Su queste onde scorre lentamente
tutto il tempo del mondo, e allora smettano
di farci fretta consoli e mercanti
o poeti venuti da lontano.
Vanno così le nostre vite e senza
né dolore né gioia proseguiamo,
pigri Argonauti verso nessun dove.
L’ECLISSI SOLARE DEL 18 APRILE 1539
Umbrae enim transitus est tempus nostrum
(Sapientia, 2, 5)
Secondo quanto avevano previsto
i calcoli e i pronostici di molti
astrologhi, oggi, con Marte combusto,
l’oscurità è calata all’improvviso
sulle case di legno del villaggio
e sui magri coltivi, ricoprendo
le cose come polvere. D’un tratto
l’aria si è raffreddata e un vento umido
increspa le acque torbide del fiume.
I fiori si richiudono. Le rondini
fanno ritorno ai nidi, mentre i grilli
cominciano a cantare. Nelle stalle
i cavalli nitriscono irrequieti.
Latrano i cani contro il cielo buio.
Sagome senza corpo, le persone
fissano la corona di metallo
incandescente intorno al sole nero,
simile ad una luna. Il pomeriggio,
già divenuto notte, ci ricorda
che il tempo nostro è un transito di ombre.
LUNGO IL CORSO DEL RENO NEL 1888
Io non so molto degli dei, ma penso
che il fiume sia come un forte dio bruno,
irascibile, indocile, ombroso,
poco paziente. Una volta segnava
il confine, era utile al trasporto
delle merci, ma anche inaffidabile.
Poi fu un problema per i costruttori
di ponti, ma, risolto quel problema,
il dio bruno finì dimenticato
dagli abitanti dei paesi, eppure
resta sempre implacabile, con furia
periodica distrugge, ricordando
che gli uomini hanno scelto
di dimenticare. Incelebrato,
non propiziato dagli adoratori
della macchina, il fiume intanto aspetta,
osserva e aspetta. Il suo ritmo è presente
nelle stanze in cui dormono i bambini,
nell’ailanto che splende nel giardino,
nell’uva sulla tavola autunnule
nei lumi ad olio le sere d’inverno.
Il fiume è dentro noi…
(da Thomas S. Eliot)
16 MARZO 1953
A cosa pensi, babbo, mentre fumi
sul terrazzino aperto del vagone,
il bavero rialzato della giacca
grigiochiara, e appoggiato alla ringhiera
guardi torme di bimbi scarmigliati
salutare da un ponte e i contadini
sparsi nella campagna per i primi
lavori di stagione? A vele bianche
che tremano al garbino lungo i moli
di una città marittima o alle aurore
brumose di metropoli industriali?
O che Enrico tuo padre, ferroviere,
sorriderebbe a questo treno lento
che singulta? Al ritratto di tua madre
Norma riposto dentro la valigia?
O che la vita è soltanto uno schema
di partenze e di arrivi e, come cenere
scagliata in aria dalla vaporiera,
nel suo tiepido abisso siamo spinti
da un’alea di incontri e coincidenze?
A questo forse pensi e di lontano,
oltre le case basse si profila
la forma di una torre e un campanile,
svettanti nella luce del mattino.
FOTO DI CLASSE, IL 30 APRILE 1966
2a elementare: nastri azzurri
slacciati sui grembiuli, qualche macchia
d’inchiostro ormai rappreso lungo gli orli
sdruciti dei polsini, tra le dita
pulviscolo di gesso. Sono trenta
i bambini, a disagio lì davanti
all’obbiettivo, con le orecchie a sventola
e le scriminature ancora incerte
come i loro destini. Ma li osserva
dalla lavagna la maestra Laura,
l’acconciatura simile ad un nido
e un cammeo che risalta sullo scollo.
Possiamo riconoscere tra loro
il timido, il goloso, il bravo, quello
sempre col sangue al naso, quello bleso,
l’antipatico, il furbo. E tutti vanno
nel buio: meccanici e bancari,
coltivatori e agenti di commercio,
camionisti, geometri, impiegati
statali e farmacisti. Per esempio
C. G., dal viso largo e gli occhi a seme
di cocomero, che sfidando un treno,
ma slittate le gomme sui binari
di un passaggio a livello incustodito,
andò a schiantarsi contro la motrice.
G. S. invece, alto, allampanato,
inventore di storie inverosimili,
un’ossessione d’amore condusse
dentro una notte urbana, dove cadde
con la gola squarciata da un coltello.
Furono i primi, a quanto ne sappiamo,
che entrarono nel gioco della morte.
MADRE E FIGLIO NEL 1967
1. La conserva
Lei, a fine agosto, passa i pomodori
maturi e oblunghi come cuori nella
macchina, e lui bambino piano spinge
la manovella. Brillano nel sole
gli ingranaggi, la ghiera di metallo,
i morsetti, il filtro che separa
le bucce e i semi dalla polpa rossa,
mentre gira la vite senza fine.
Stracci bagnati. Vasi che sobbollono
e vanno sottovuoto. Sulla maglia
una macchia di sugo sembra sangue.
Sollevano una cassa piena, in due.
2. Il gomitolo
A lui piace che lei, da madre giovane,
qualche volta gli chieda di aiutarla
a disfare un maglione o a dipanare
una matassa nuova, perché allora
tiene tele le mani e con le braccia
compie un leggero movimento ad onda
così la lana non si impiglia, intanto
lei sorride d’amore e avvolge intorno
al bandolo il gomitolo, e quel filo,
che congiungeva madre e figlio ancora
prima di nascere, ora li riunisce.
3. Le lenzuola
Lei stacca le mollette da bucato –
come becchi di uccelli spalancati –
dal filo che attraversa in diagonale
il vano di cucina, e lentamente
cadono giù e si afflosciano le vele
delle lenzuola appese ad asciugare.
Poi gli dice di prendere i due lembi
in modo che combacino le punte
e di tirare forte con le dita,
che non restino grinze sulla tela.
Nel gesto silenzioso del piegare
sentono i cuori battere all’unisono,
quando lui si avvicina e lei di nuovo,
quasi a passo di danza, si allontana.
4. Lavori di cucito
Da lei ha imparato il gergo oscuro
del cucito: «gasgare», l’orlo a giorno,
il punto croce, cruna, imbastitura,
la gugliata, l’agòccia (che sarebbe
in dialetto l’agucchia, come un ago
che prenda forma da una goccia d’acqua).
Sul tavolino il cesto da ricamo,
il ditale, i rocchetti, il gesso azzurro,
il puntaspilli, l’uovo da rammendo.
Nero e dorato il braccio della Singer
a pedale, con la figura alata
della sfinge, il segno dell’enigma
fra trama e ordito, dentro le parole.
CONGEDO SENZA DATA
ad Alessandro Fo
per questa poesia e altro
Io non lo so cosa può dire a un altro
questa terra, ma è dove sono nato:
un piccolo paese ed una casa
che brucia, culla e mondo dell’infanzia.
Come un ramo dal tronco, sono stato
qui generato e qui sarò sepolto.
È la mia casa. Qui conosco i nomi
dei cespugli, conosco i loro fiori,
so dove va chi cammina per strada,
so che cos’è il dolore che fluisce
nei tramonti d’estate e arrossa i muri.
Dall’oblò dell’aereo uno distingue
solo una trama di villette a schiera
e capannoni; io vedo grilli e rondini,
un campanile storto ed una torre,
la casa che fu abitata da un poeta.
Dall’alto si apre poi lo spazio vuoto
dell’ex fabbrica e i campi coltivati;
io vedo un uomo che lavora, i pioppi,
frutteti cinguettanti, vigne, tombe,
il pianto silenzioso di una madre.
Ai lati della ferrovia dismessa
mi appare ancora il casellante, in mano
la bandierina rossa arrotolata,
i bambini che guardano passare
il treno merci, i cani nei cortili.
Nel parco c’è la traccia del suo bacio,
mora di rovo e miele sulle labbra,
la pietra su cui caddi mentre andavo
in bicicletta, pietra ormai scomparsa
che più nessuna mappa può mostrare.
Noi, come tutti, abbiamo fatto errori,
sappiamo cosa e quando, dove e come,
ma adesso qui vive altra gente, forse
altri bambini senza colpa, chiusi
nel buio di una stanza, finché un giorno
risponderanno con parole nuove
alle nostre parole. Tu, notturna
nuvola,
sopra di noi distendi le tue ali.
(da Miklós Radnóti)
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sarà che sono madre, ma quelle dedicate alla complicità tra mamma e figlio sono adorabili!
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MADRE E FIGLIO NEL 1967, decisamente, sono i passi migliori…suggestioni ed emozioni nella semplice vita quotidiana.
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