DESERTO ANACOLUTO
I
lo l’attendevo la pioggia purché facesse
da sé tutto il nero scompiglio
di cielo severo, pomeriggio inflessibile
lucido viscerale e disperato,
per i fondi bucati nelle giacche,
gli aggettivi, eccetera
ossa, che avevano gettato la spugna.
II
La fine frusta di una sera
al confine, a fare il nulla
e sembrarsi confusi
da strozzarsi la gola,
per osmosi
carne defunta
nei rimorsi a porta aperta.
III
Tenevo il tempo al collo
solo per vedere l’ alba
e scesi io stessa
nel giardino soffrendo d’aria,
l’ombra dei (mai) nati (mai) morti
non ancora impossibile,
tanta solitudine.
un grumo che dalla polvere si separa o, per meglio dire, neve a sciogliere pietre nel piatto che fa eco. Abituarsi. Forza demolitrice degli spigoli, dei tratti e dei colori, degli affanni, che cadendo si lega, ricorda e frantuma. Poco più che una nutrice cieca mentre incarta il nulla a una culla vuota e che forse neanche c’è più, per pratica del mattino, recisa
I
Le falangi spezzate
sono terra cava
figlia di un padre deserto sterile
madre che contiene il nulla,
appena l’accenno di sonno insolubile.
II
Ho dormito settimane per tornare simulata,
pallida mimesi a distanza
infinita, simulacro del divenire
corpo trapiantato fuso alla voce
e nulla da dichiarare, se non la candeggina
III
A strappare l’erba nuova
c’andavano i bambini
il pomeriggio, con l’unica voce
d’abisso, ferita aperta
senz’orma di un fondo.
così oggi sai che soffia un vento fortissimo, con i fiori all’infuori e all’ingiù da tutte le balaustre, e nel tempo di coprirti il viso con la mano, sento passarti accanto il silenzio gelato dei ghiacciai sterminati, scintillanti come fucine di diamanti sotto il sole, che ti farebbero urlare a squarciagola per sentirsi parlare almeno una parola
i Mietitori del sorriso danzano come le spighe al vento quando ondeggiavano sulla terra ormai secca le sere d’agosto, nel silenzio abitato da un frinire ininterrotto che precedeva soltanto i canti e le danze nella nette di San Giovanni; ma la danza dei Mietitori è quella dei Dervisci, non segna calendari né i più antichi tragitti del sole, sola come un vento s’alza altrove, avanza silente aperta intorno al paese delle vacanze, incurante delle cicale e degli ululati dei cani
Comunicare se ne va da noi,
qui ci fermiamo con le bandiere abbassate
alla chiarijicazione arida come le sponde
all’indietro su bicchieri tenuti
con i gesti antichi deli’abitudine.
Oggi la pioggia sorride tristezza
inondazione degli istinti
al risplendere e all’appartenere
che le linee barbare attendono sulla curva
compaiono all’improwiso.
da Quasi Radiante, Tempo al libro, 2019
Martina Campi è autrice e performer. Tra le sue pubblicazioni: La saggezza dei corpi (L’arcolaio 2016), Cotone (Buonesiepi Libri 2014), Estensioni del tempo (Le Voci della Luna Poesia, 2012 – Vincitore Premio Giorgi), e la plaquette È così l’addio di ogni giorno (Corraino Edizioni 2015). Presente in antologie, riviste e webzines. Sue poesie sono state tradotte in inglese, spagnolo, francese e rumeno. È tra gli organizzatori del festival “Bologna in Lettere” dalla prima edizione. Da giugno 2017 partecipa a Il banchetto di Rosaspina – Di virtù e maledizioni, Spettacolo di Teatro, Poesia e Favola, di e con Alessandra Gabriela Baldoni, con Giancarlo Sissa, Luna Marie, Mario Sboarina. Co-fondatrice, con il compositore e musicista Mario Sboarina, del progetto Memorie dal SottoSuono – The poetry music experience, nel quale si fondono reading poetico, elettronica, jazz/ambient, contaminazioni afro e accenni di musica popolare; di marzo 2016 l’omonimo album. Il progetto Memorie dal SottoSuono è oggi un vero e proprio collettivo a cui partecipano artisti di diversa formazione. Sito personale: http://www.martinacampi.it/.