A volte, di rado, accade che leggendo una raccolta se ne ricavi la netta percezione che sia il lavoro di una vita, cioè qualcosa di lentamente sedimentato e a suo modo irripetibile. Non è una questione anagrafica, ma di quanto del bagaglio di sé l’autore è stato capace di convogliare all’interno dei versi e del percorso.
È la sensazione che mi accompagna quando mi ritrovo a prendere in mano I figli che non tornano di Matteo Zattoni (edito da PeQuod), libro che ne segna il ritorno dopo un lungo periodo di silenzio. Viene da dire che sia stato un silenzio necessario per concepire ed elaborare questa sorta di romanzo in versi – prendo a prestito un’espressione di Zattoni stesso – che attraversa le esistenze di tre generazioni e al tempo stesso è lo strumento che Zattoni utilizza per abbozzare un bilancio dei passaggi della propria vita. Opera corposa ma mai prolissa, I figli che non tornano è anche una riflessione continua sulla perdita e su ciò che degli altri rimane dentro di noi, così da raccogliere immagini che altrimenti sarebbero state smarrite ed acquistare il valore di una continua e toccante testimonianza.
Si tratta quindi di un libro a suo modo definitivo: Matteo Zattoni dà l’impressione di avere messo tutto di sé, di non avere tenuto da parte assolutamente nulla. E di questa autenticità di nutre la scrittura che diventa vivida ed essenziale, strumento di memoria e traccia che merita tutta l’attenzione possibile.
***
L’ultima leggenda a cui ho creduto seriamente
era che ci saremmo rincontrati tutti
da qualche altra parte
io, mio nonno Gino e quel ragazzo
della scuola finito sul giornale
e alla domanda se ci sarebbe stata anche la mia gatta
qualcuno a catechismo
rispondeva no, perché le manca l’anima.
Io le avrei dato la mia
pur di rivederla viva scodinzolare
e il padre del mio amico divorziato? Nemmeno lui,
vive nel peccato. C’era un senso ferreo
nelle regole.
Almeno nelle leggende mi sarebbe piaciuto
che “tutti” significasse tutti.
***
Nulla di nulla – dici – non sento
niente, mentre quello ti fora
con un ago lungo l’asse
delle stelle fisse e del cuore
eppure si stringe intorno a te
l’oceano opaco della notte
e la risacca è una consolante
ninnananna, è una e sono
tante piccole extrasistole
«perché, cosa dovrei sentire?»
insiste mezza bocca che non vuole
alzarsi e guardare
spaventi di un neonato
neomorto e rinato.
***
a mio fratello
Vi somigliate un mondo l’un l’altro
non gliel’ho mai detto, che si sbagliavano
perché in fondo mi faceva comodo pensarlo
pensare a due gocce d’acqua, così dimenticando
che ognuna di esse, pur della stessa sorgente,
diversamente rifrange la luce, ne partecipa
fino a questa domenica che ti sradica
da me per un’intera settimana, e ancora
l’aria risuona – si vede che siete fratelli
parlando col mio, e così da lontano io
e lui ci squadriamo, come cani diffidenti
senza sapere chi di noi debba offendersi.
***
Referto
Tachicardia sinusale
complessi prematuri ventricolari a coppia
lesione transmurale anteriore
infarto acuto precoce
derivazioni laterali coinvolte
è la formula con cui il cuore si ferma
e qualcuno decide
che finisce così la tua storia
in tre righe di elettrocardiogramma
e uno scarabocchio
di firma.
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Ancora sul sagrato
l’unico maschio superstite
recupera il suo spirito:
«Dovremmo trovarci alle cresime
per i battesimi, altroché morte
e cimiteri!», il gomito
scatta contro la mia costola
come una fiocina, «Colpa di voi
poeti che non partorite figli
ma libri».
***
Meglio essere in troppi
che stare soli in una panca
della chiesa, così ci affolliamo
come i piccioni sotto i balconi
serriamo le fila, stiamo vicini
perché siamo in pochi
sperando che il mucchio
impedisca alla valanga di colpirci.
***
molto interessante.
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