perìgeion

un atto di poesia

Lo stupore e il caos, di Angelo Maugeri

 

IL GIOCO DEL MONDO SECONDO MAUGERI

Letture aberranti da “Lo Stupore e il caos”, 2021, Puntoeacapo

 

Nel presentare l’ultimo libro di Angelo Maugeri partiamo dalla domanda che un noto autore di testi poetici – chiamiamolo così, con l’ imbarazzo con cui si affermerebbe di aver visto un U.F.O. volendo comunque apparire sani di mente – ha posto ultimamente da un suo profilo social.

La domanda è la seguente: “È ora di cambiare nome a quello che facciamo? “poesia” è ancora la parola giusta?”.

Domanda legittima, come ben sa “chi legge poesia oggi”; come ben sa persino chi è costretto ad ascoltarla a Sanremo o tra birra e panino agli slam poetry.

Lo stato della poesia, mai troppo stabile, è ormai pari a quello di certi gas nobili: considerare quindi inedito il summenzionato quesito significa ignorare il dibattito sulla forma poetica degli ultimi cinquant’anni: insomma ci suona surreale, più o meno come se qualcuno chiedesse “ragazzi, ma alla fin fine, questo Dio di cui tanto si parla, esiste o no?”

Siccome però consideriamo l’autore X non solo sano di mente ma autorevole, nel riproporre ancora una volta la vexata quaestio riconosciamo almeno un supremo e un po’ beffardo sforzo di sintesi: insomma, prendiamo non le vaste implicazioni di una domanda che data almeno mezzo secolo ma – a nostro esclusivo uso e consumo – una sua più abbordabile porzione; e vediamo che cosa voglia dire – ad esempio riferendola al nuovo libro, “Lo stupore e il caos”, di un poeta di lungo corso come appunto è Maugeri.

Al posto del domandone d’esordio, quindi, due domandine, all’apparenza semplici semplici, due

domande-sottoinsieme: “di cosa “parla” – sempre ammesso che parli – il poeta?  Chi sono l’artefice e il soggetto della poesia?” E, infine, domanda non meno interessante: “il lettore, oggi chi è?”

Ci soccorrerà a questo punto qualche testo da “Lo stupore e il caos”.

 
Nulla è come sembra,

ogni cosa si confonde

a volte si nasconde

come in certe oscure storie

fra le onde illusorie

della luce e dell’ombra

(Nulla è come sembra, pag. 25)

 

Lettore, mio simile, fratello, sappi che al sottoscritto è venuto il ghiribizzo di leggere in chiave allegorica molte tra le poesie di questo libro: libro che sin dal titolo, “Lo stupore e il caos”, riporta i termini della dialettica soggetto-oggetto, io–mondo.

 

Un sedentario si veste da viaggiatore

esce di casa, sparisce per anni

in condizioni di laboratorio.

Qualcosa o qualcuno lo stacca

dal corso generale delle cose.

 

Gli altri appena possono si stringono

all’altezza degli occhi, lampeggiano

da dietro i cespugli. Il resto è un grido

troppo alto perché possa

spegnersi a terra.

 

Se dopo questo esilio

avanti nel tempo

la natura è paziente,

il corpo del diletto può patire

tempeste di anni e paesi,

il viaggiatore perdersi per via.

 

Come si legge, nel protagonista di questi versi asciutti ed enigmatici, si adombra ancora una volta l’archetipico personaggio di una sapida storiella: quella, cioè, del tale che  “va a comprare le sigarette” e poi se la fila a gambe levate.

A questo proposito citeremo una novella di Nathaniel Hawthorne dal titolo “Wakefield” , in cui succede più o meno lo stessa cosa: in un non meglio precisato paesino degli Stati Uniti d’America, un uomo mite e devoto esce di casa e, di punto in bianco, sparisce. Sennonché invece di darsela a gambe, non visto dai suoi familiari Wakefield decide di non andare troppo lontano; anzi, va proprio ad abitare nell’appartamento difronte alla sua vecchia casa. Da qui sbircia – anno dopo anno – la vita della sua famigliaosserva la pena della moglie; lentamente il dolore per la sua scomparsa cede il posto a tristezza, rassegnazione e, più tardi,  a una dignitosa normalità.

Nulla dello stato d’animo, delle intenzioni del protagonista ci viene svelato; nulla di Wakefield in effetti si sa.

Tranne che, alla fine del racconto – dopo ben vent’anni e come niente fosse – il protagonista torna.

Proprio così: Wakefield varca quatto la soglia di casa. E lì il narratore lo abbandona, consegnandoci il mistero di questa strana vicenda. Il racconto si chiude senza una parola di più, come senza una parola Wakefield serra l’uscio di casa.

L’unica cosa che dunque davvero sappiamo è che Wakefield vuole osservare la vita dei suoi cari senza di lui.

Ma davvero le cose possono accadere davanti ai nostri occhi come non esistessimo? In fondo, non ci è stato insegnato che l’esito di un esperimento è sempre influenzato da chi lo osserva?

Adesso riprendiamo la poesia di Maugeri.

La differenza sostanziale è che, mentre Wakefield non è mai partito, il suo “viaggiatore sedentario” può “perdersi per via”, patendo “tempeste di anni e paesi”.

Poniamo che Maugeri ci parli per enigmi: cos’altro è, se non un viaggiatore sedentario, il lettore? Si tratta di un lettore potenzialmente assente, esiliato dalla comprensione del mondo, un lettore che può perdersi malgrado i richiami: “Il resto è un grido/troppo alto perché possa/spegnersi a terra”.

Si grida e si scrive per niente, per il Niente, senza speranza di essere ascoltati o letti: è questa vertigine che fa gridare, scrivere così alto?

Anche Wakefield in fondo non fa che leggere, scrutando dietro le finestre la sua famiglia, come se appunto non ci fosse.

Ma il recensore è impazzito? Che lettura aberrante è mai questa, dove andremo a finire di questo passo, signora mia.

Gentili signori, la gente non chiede più niente di serio ai recensori, e lasciateci divertire.

Oltretutto, tracce di un procedimento allegorico sotto le mentite spoglie del contemporaneo sono disseminate ovunque nel libro.

Procedamus: a pag. 34-35, si incontrano ad esempio tre poesie concepite come un trittico, dal titolo “Dimentica, diventa!”: leggiamone la “2”. e la “3.”

 
2.

Lungo rotte maligne, movimenti maldestri,

esclamazioni inudibili o maledette,

gli appelli parlano attraverso

la voce meccanica delle onde sonore.

La macchina che trasmette

essa pure è vivente: si lascia addormentare,

ronfa e sonnecchia se non si tiene sveglia.

C’è un sonno nel sogno, come una cupa

disperazione di contatti con qualcun altro.

 

 

Il testo sembra parlare di una radio. È anzi senz’altro una radio, quella che si nomina. Ma davvero è una radio? Una radio, davvero, “Ronfa e sonnecchia se non si tiene sveglia”? È umano, senza dubbio alcuno, umanizzare qualunque scena, anche la più straniante e lontana.

Ma perché le rotte sono poi “maligne”? Di chi sono gli “appelli”? C’è come una familiare disperazione, “un sonno nel sogno” nel cercare il contatto con “qualcun altro”.

E adesso la 3.

 

Quando la stanca inerzia

scatta in effervescenze virtuose,

si leggono come proprie

le poesie degli altri.

Il poema di Mallarmé

è fatto di tutti i libri, ma vi manca

sempre il proprio.

L’evacuazione delle scorie è un segno,

è un grido che si libera e dice:

dimentica, diventa!

 

Ultima sezione del trittico: appare Mallarmé tra le letture dell’ (io?) poetante, tra gli umbratili e polimorfi numi della modernità; e tornano “gli altri”, già citati nella seconda poesia come mancanza. Tralasciando la biografia e l’opera del poeta francese, sembra che, dove si trovano “gli altri”, manchi “sempre il proprio”: è un passaggio speculare, se vogliamo, alla “cupa disperazione di contatti” con quel “qualcun altro” della poesia precedente.

Ma chi è il soggetto della “stanca inerzia”, che si entusiasma e si confonde con l’opera degli altri? Chi sono, soprattutto, gli altri? Gli altri sono forse il corpo del mondo, le membra di un grossolano “non io” che non risponde ai comandi come vorremmo e come forse non è saggio auspicare.

E allora si affacciano altri personaggi – l’autobiografia per un poeta è un pretesto al massimo – che, all’apparenza semplici, mimano allo specchio un lettore smembrato e divaricato.

Senza smettere di essere concreti, hanno appunto la forza di un’allegoria.

 
La voglia di muovere i piedi,

adagio, quasi furtivamente

dando il comando e stimolando

come scuotendo il piede,

prima il destro poi il sinistro,

per terra piano,

quasi strisciando lentamente,

coordinando i movimenti,

la reazione dei nervi, dei tendini,

dei muscoli, delle ossa,

ogni cosa al suo posto, la fitta rete

degli organi necessari

all’articolazione, al movimento,

i fasci direzionali dei muscoli estensori,

la coscia, il ginocchio,

il polpaccio, la caviglia, aerando

il piede dentro la scarpa con una minuta

serie di movimenti delle dita,

a uno a uno e tutti insieme, col respiro

dei tarsi e metatarsi, distendendo

l’arco plantare, il tallone, la pianta,

le unghie a contatto con la calza,

e tutto aderendo nel suo giusto corpo,

e nella giusta misura, a terra,

l’uno e l’altro piede, nell’abituale

esercizio deambulatorio.

La passeggiata in piazza,

camminando svelto o lasciandosi

guidare dai riposi dell’occhio,

dalle stazioni presso le vetrine dei negozi.

E tutti sono lì, gli altri, che camminano,

ognuno coi propri pensieri, le proprie cose,

il pastrano, il cappello, la borsa, l’ombrello (…)

 

 

Ancora gli altri: che però deambulano, a differenza dell’osservatore-lettore, nella beata incoscienza della divaricazione, dell’infermità senza rimedio. Identità transitorie, migrazioni da un io debole all’altro, travasi inevitabili nel sé(“dimentica, diventa”, appunto). Insomma, poesia proteiforme: potenzialmente collettiva, effettualmente solipsistica.

 

“Essere qui per abitare

il mondo (o un’idea

del mondo:

un’idea da farsi

del mondo da farsi)…

(Essere per abitare, pag. 20).

 

Ma insomma chi è il lettore, chi il soggetto-attante che lo evoca, quel che si direbbe l’io poetico? Non ha importanza, Maugeri parla soprattutto per sé stesso: non a caso è stato tra coloro che esordirono in quella “Parola innamorata”  datata 1978, dove nelle intenzioni degli stessi curatori Mauro e Pontiggia, il dissolvimento del critico-lettore sarebbe stato controbilanciato quasi da un alone di attardato titanismo romantico, da un sovrappiù di slancio fideistico.

Proprio alla stregua del lettore-critico, anche il soggetto della poesia diviene inconoscibile, tuttalpiù determinato – nella funambolica vertigine della pagina bianca – da una parola innamorata di sé: pagina che però accoglie figure ectoplasmatiche, coincidenze beffarde e lacerti di storie; tutti indizi di minima e stupefatta esistenza, residui di emozione e pensiero.

 

Sì, ne venivano. Arrivavano a gruppi,

rimanevano svegli e poi ripartivano.

Rimpicciolivano fino a svanire…

 

Ne arrivò uno, il primo

del secondo e del terzo non si seppe più nulla,

il quarto giunse con molto ritardo,

il quinto si perse per strada,

il sesto non si era mai mosso da casa,

l’ultimo mise dentro la testa per dire:

Domani mi sposo.

(I subentranti, pag. 14)

 

Si veda come la poesia appena riportata ricordi una cantilena elementare: la voce imita le filastrocche di molti  decenni fa; rende conto, in poche battute, delle semplici vicende di figurine senza nome. Cosa evoca il testo? Il fenomeno dell’emigrazione, la Resistenza? Ma quegli esseri, che appaiono e scompaiono nell’arco di un solo verso, restano poi sagome di carta sul foglio ingiallito della memoria.

E non che non esistano, copiose nell’opera e nel suo narratore, le tracce di un’etica, una dialettica tra i valori del mondo: lo affermano in pari misura la compassione ed il risentimento verso – esempio tra i non pochi del libro- la sorte delle vittime del ponte Morandi (C’era chi gioca impassibile a dadi/ con la vita di uomini e donne/ senza pesare gli anni di ciascuno, pag. 62)

Ma giunto alla sua maturità compositiva ed esistenziale, all’autore non interessa infine neanche più ricomporre la irriducibile – e talvolta tragica – dicotomia tra mondo e mente. Più che considerarla con l’abituale tensione, Maugeri sembra infine voler partecipare il più delle volte al disteso gioco della realtà, alla fantasmagoria imbandita dal ricordo, che sardonico ci invita anche a godere.

Perché tutto è ricordo, anche il presente.

E perché, come acutamente rileva Giancarlo Pontiggia in nota di copertina, qui si incontrano infine due solitudini, quella dell’autore e quella del lettore. Ma – aggiungiamo noi – due solitudini non fanno un mondo: al massimo si fanno compagnia, con un decoro e una riservatezza ereditati da epoche forse più felici di questa attuale, di questo stesso caos che neanche ci si sogna più di riordinare.

Vincenzo Di Maro

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